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La spezia agricola

Il Borgo Baceo, un’oasi agricola dell’Ottocento a rischio di demolizione

Al fianco della Maggiolina, ricoperte dai rovi, poche case sono le ultime testimoni della piana di Migliarina prima del cemento. Un progetto edilizio prevede di raderle al suolo, ma c'è ancora chi ricorda la vita semplice che vi si faceva.

Borgo Baceo

Se The little house è ancora un pietra miliare della letteratura per bambini, lo si deve anche al fatto che i temi trattati da Virginia Burton Lee ottant’anni fa sono ancora attualissimi. E’ la storia di una piccola casetta di campagna inglobata inesorabilmente nella città in espansione. Le strade sterrate coperte da lingue d’asfalto, le staccionate di legno sostituite dai guard rail, i meleti diventati foreste di lampioni e la luce del sole riflessa dagli alti palazzi di vetro della metropoli. Finché un giorno la bisnipote della bambina che aveva vissuto in quella campagna non scoverà il rudere della vecchia casetta, la libererà dalla morsa del cemento per trasportarla su una collina in mezzo al verde e rimettere indietro le lancette dell’orologio.
Il finale della vicenda di Borgo Baceo è ancora da scrivere, ma la storia della decadenza del piccolo complesso agricolo ricorda da vicino il premiato libro americano. Piano piano, nel corso dello scorso secolo, dalla piana di Migliarina sono scomparsi i campi coltivati, il canale con il ponticello di legno, le vasche di arenaria per mondare le verdure, gli stagni con le rane e le salamandre, gli alberi da frutto, il fieno, la scialappa e il bozzo d’acqua dove si lavavano i panni. All’incrocio tra Via Prosperi e Via del Canaletto, a fianco del Parco della Maggiolina, rimane però una sorta di museo fossile di quel mondo agricolo, che una volta all’anno riappare alla vista quando viene operato il taglio dei rovi.
Su quegli antichi casolari abbandonati oggi pende un progetto di demolizione, che fa parte di un’ipotesi di risistemazione globale dell’area. Nuovo verde, maggiore decoro, ma anche due edifici residenziali di diversi piani sorgerebbero su quella testimonianza di un mondo perduto. Lontana idealmente dalla città che vi è cresciuta attorno dagli anni Cinquanta in poi, ma ancora vicina per chi ha memoria di cosa c’era prima.

Come la signora Marialuisa Bertagna, che oggi ha 82 anni ma lì ha passato l’infanzia. “Era un mondo a parte, deve pensare che i palazzi di Via del Popolo e Corso Nazionale non esistevano. Erano tutti campi e case di contadini. E poi in fondo c’era la marina dove erano i pescatori. Per trovare i primi palazzi dovevi arrivare in viale San Bartolomeo, le case di Migliarina a mare. L’unica casa abitata è rimasta quella dei miei bisnonni – ricorda -. Mio papà, del 1910, raccontava che il nonno gli aveva costruito una carriola dove lui piccolino portava un mattone alla volta. Le case erano piccole, ma avevano in media tre appartamentini. La chiamavano l’Isola Toracca perché le sorelle avevano comprato la terra dal conte Della Torre. Tutti noi abbiamo ricevuto il battesimo nei fossi, che in primavera erano pieni di giaggioli gialli”.
La terra era pianeggiante e il livello più basso, come si può osservare ancora oggi. Il resto del quartiere è sopraelevato e così la montagnola del parco, alimentata dai detriti dell’edilizia durante il boom economico. “C’erano tanti bambini, dei bei prati – ricorda la signora Bertagna -. E si coltivava. Prodotti stagionali. Dal prezzemolo, che veniva raccolto dai contadini tutti i giorni e portato al mercato la mattina, fino a cavoli, melanzane, pomodori. Partivano per la piazza sul carro di Gioanin, che si diceva avesse sposato la donna più bella di Spezia ma che per molte vicissitudini era diventato alcolizzato. La casa dove viveva è stata abbattuta. Gli ultimi ad abitarla furono una famiglia di materassai. Il latte si andava a prendere noi bambini nella casa colonica dalla Erminia, che col mescolino ci dava la panna. Mai più di un misurino a testa. Quando raccoglievano il fieno era la nostra gioia. Certi scivoloni, altro che parco dei divertimenti! E la mattina l’odore inconfondibile di Richin che prelevava il liquame dai pozzi neri per concimare l’orto…”.

Ogni casa aveva il suo nome per chi abitava l’isola: da Sanguinetti, da Manuèo, da Loèo, da Bacèo, da Fortìn…. Nel Dopoguerra la piana si è urbanizzata seguendo la direttrice di Viale Italia. Ma la presenza di questi ruderi, scampoli di una la Spezia che esisteva quando la mes-ciua era il piatto di ogni giorno, è stata di recente raccontata in immagini dall’educatore ambientale Fabio Giacomazzi. “E’ forse l’ultima fattoria di città ancora esistente e con una certa consistenza – annota -. Si nota ancora quale fosse il vecchio piano di campagna, poi livellato. Perlustrando la zona avevo trovato la cannuccia di palude, tipica della zone umide. Era probabilmente una zona di ristagno, o tale è rimasta dopo che è stato costruito il resto del quartiere”.
Forse l’ultima occasione per la Spezia di pensare ad una cascina in città, un modello che nella Pianura Padana ha dato vista a tante esperienze storiche e didattiche di successo. Lo aveva proposto qualche tempo fa Marco Golinelli, architetto e animatore della Società Storica Spezzina. “I tempi sono più maturi per poter recuperare, senza demolire, uno spazio che si presenta oasi temporale dell’Ottocento. Ma come? Non ci sono certo valori architettonici da preservare, non certo esempi di particolare cultura agreste che si trova ovunque fuori porta. Vi è però un’indiscussa aria bucolica, un livello di terreno antico, una dimostrazione di come era la città appena fuori città quando li non era ancora città”.

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