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Sprugoleria

Sprugoleria

Le tortughe nostrane e la primavera

Tartarughe alla Rimembranza

Insomma, pare proprio che ormai marzo stia rinsavendo e la smetta di fare il pazzerellone con tutta quella pioggia che ci ha scaricato addosso. Il sole torna a scaldare le ossa di modo che il suo calore, anche se è ancora un po’ ventoso, comincia a dissolversi anche il letargo invernale. Così siamo tornati a girellare attorno al Parco della Rimembranza ed al suo laghetto. È proprio vero che il caldo ha risvegliato tutti quelli che dormivano. Appena entrati, ti vedi schierata come per una rivista militare tutta la comunità delle tortughe nostrane appollaiate sui sassi che contengono l’acqua del bozo, immobili e fisse manco fossero le guardie davanti all’ingresso di Buckingham Palace.

Per una sorta di mimetismo che non saprei dire se sia casuale oppure consono alle leggi dettate da Madre Natura, per meglio distinguerle è necessaria una messa a fuoco accurata perché la tinta della loro corazza si confonde con quella delle pietre su cui stanno distese a prendere il sole. Tutte ferme, immobili come sassi eccetto una che si divincola nell’acqua tentando di scalare un sasso. Dalla dimensione la giudico ancora adolescente, troppo giovane ed inesperta per un’impresa simile. Infatti, quasi fosse all’arrampicata del Muzzerone sulla grotta Arpaia agita frenetica le zampette posteriori poi quelle davanti, scrolla il capo ma è tutto inutile. Non riesce a tirarsi su. Forse il guscio pesa troppo o l’inesperienza le ha suggerito una missione che le anziane della comunità avrebbero subito scartato giudicandola impossibile.

Le rimanenti abitanti del bozo, infatti, se ne stanno accoccolate sulle postazioni acquisite, chi potrà mai dire se in seguito a regolare duello o se solo per diritto di anzianità. Nel gruppo delle nostrane testuggini una spicca su tutte per la dimensione che è nettamente superiore a quella di ogni altra compagna, non saprei dire se per elefantismo o solo per il maggior numero di anni. Mi avvicino alla presunta vegliarda che non mi degna di uno sguardo e busso delicatamente con le nocche delle dita sulla sua corazza il cui nome scientifico è carapace. È questa una parola derivata dallo spagnolo. L’origine è incerta ma resto convinto che per la mia amica sono due parole di quattro lettere ognuna. Capendo che non ho intenzioni bellicose, si limita a sbattere le zampette posteriori come noi che agitiamo la mano per dire ciao. Ma la coda resta immobile come il capo, fisso in una direzione indefinita, proiettato verso l’immensità del creato. Se c’è una lezione da trarre da tutto questo, io non so però per me è stato un bel quadretto che mi è piaciuto descrivere.

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