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Sprugoleria

La sigaretta adolescenziale, tra ricordi e liturgia

di Bert Bagarre

Una pubblicità Chesterfield d'annata

Da adolescente la sigaretta era il momento iniziatico dell’emancipazione dalla tutela parentale.
Alla voglia di sembrare grandi, specie agli occhi delle fantele, concorreva anche la musica. Si sentiva spesso la canzone della non più giovane Milly esplicita nel dire che la cicca era passo obbligato per più diverse avventure, ma anche Mina, diva dei teenagers, contribuiva cantando che l’uomo è vero solo se sa di fumo.
Autorizzati da questi messaggi, i fanti facendosi coraggio entravano nelle tabaccherie a chiedere delle nazionali senza. Come zucchero e pasta, si vendevano sfuse anche quelle sigarette prive di filtro che prima di accenderle si battevano contro l’orologio per appiattire la parte da imboccarsi: pure la liturgia del cerimoniale costruisce il rito. Con 35 lire ne portavi via cinque che il tabaccaio consegnava nel portasigarette fatto da una bustina di carta sul cui fondo subito s’accumulavano riccioli di tabacco.
Solo di domenica o per farsi bello con la pivella, si compravano le americane di contrabbando. Accompagnato dall’amico sgamato che sapeva i posti, si andava nei fondetti che stavano accanto ai cinema. Lì, spendendo più del solito, compravi, magari solo un pacchetto da dieci, ma di marche prestigiose che oggi non esistono più ma allora erano il top.
Non essendoci ancora i Bic e costando troppo lo Zippo, oltretutto difficile da nascondere in casa, per accendere si ricorreva ai fiammiferi. Ignaro se esistano ancora, ne ricordo il vasto assortimento: da cucina, cerini, svedesi e controvento ché reggevano perfino la furia del ciclone. Ma era anche consuetudine accendere aspirando dalla brace della sigaretta di chi già fumava e mai si rifiutava.
Si usava così quando la scatola non avvertiva ancora dei danni che il fumo produce ai minori quanto ai grandi cui il vizio era concesso quasi che la maggiore età protegga i polmoni.
Al termine di questa puntata di ispirazione musical-tabagista vale la pena ricordare che il Vate di Sprugolandia si avventura anche nel campo del tabacco per ricordare che la parola esisteva ancor prima dell’importazione della pianta in Europa e significava (siamo a metà Quattrocento) svago. Ma l’Ubaldo instancabile ricercatore scopre in un atto del 1295 un tale di Vezzano che si chiama Pietro Tabacco, nome questo che conclude essere nickname derivato da “qualche sua peculiarità personale” riconducibile al sollazzo.
Intitolarono una marca di cicche al sindaco della futura NYC; perché non farne una a Pietro Tabacho vezzanino?

PS: La mutazione genetica per cui tabacco assume l’attuale accezione, è quando gli Spagnoli chiamano così la pianta arrivata in Europa per l’assonanza con la parola usata dagli Amerindi per indicare la pipa. Dalla penisola iberica il contagio in breve s’allarga agli idiomi continentali.

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