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Luci della città

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La politica ai tempi di Draghi – seconda parte

di Giorgio Pagano

Lucca, la Basilica di San Frediano (2018) (foto Giorgio Pagano)

LA DESTRA
Domenica scorsa, nella prima parte di questo articolo, scrivevo che con il Governo Draghi “il rischio concreto è quello di una normalizzazione e di una restaurazione”, e che il futuro “dipenderà da Draghi, ma anche da come agiranno il centrodestra e il centrosinistra”, schieramenti oggi “confusi al loro interno”.
Le dimissioni di Zingaretti rendono più chiaro lo scenario di “spostamento a destra” che avevo delineato. Lo “spostamento a destra” c’è stato a causa della sconfitta di M5S, Pd e Leu, confermata dal gesto di verità del Segretario del Pd. La cacciata del Governo Conte due auspicava, nei desideri dei suoi potenti ispiratori, l’avvento del leghismo moderato dei vari Giorgetti e Zaia, la dissoluzione del M5S e la rottura della sua alleanza con il Pd, che si voleva addomesticato e predestinato a una collocazione moderata e centrista. Zingaretti ha reagito a questo disegno, apertamente condiviso da una parte del suo stesso partito.
Contro Conte l’outsider, autonomo dal sistema dominante, viene ripristinato l’ordine infranto. Il Presidente della Repubblica si è assunto la responsabilità davanti al Paese del nuovo esecutivo: “di alto profilo” e che “non deve identificarsi in nessuna formula politica”. L’”alto profilo” è opinabile, di fronte alla scelta dei ministri e dei sottosegretari, molti dei quali di infima qualità. Mentre la “formula politica”, in realtà, esiste eccome: è la politica di unità nazionale, che vede insieme i sovranisti conservatori e gli europeisti liberisti, oltre che grillini e sinistra in stato di implosione. E’ una formula che rischia di avere come contenuto di fondo il culto del mercato, la lingua che unifica Lega, Forza Italia, Italia viva e una parte del Pd e del M5S. Ricordiamoci quando, nel 2012, l’Unione europea ci spinse a inserire l’obbligo del parere di bilancio in Costituzione: il relatore di quella riforma votata a larga maggioranza si chiamava Giancarlo Giorgetti, che non ebbe niente da ridire quando la Lega, due anni dopo, si scatenò in una campagna elettorale al grido “No euro”. E’ una formula che vuole scongiurare quei pur inadeguati e contraddittori accenni a politiche redistributive del reddito affacciatesi con il Governo dell’outsider.
La Lega, forza antieuropeista, è ora parte integrante di un governo nitidamente europeista. Fratelli d’Italia è isolata all’opposizione, Forza Italia ha nel Governo Draghi un peso insperato. Non c’è che da rallegrarsi per la svolta leghista. Ma, in realtà, sovranismo conservatore ed europeismo liberista possono convivere, come dimostra la storia di Giorgetti, e anche quella del premier ungherese Victor Orban. Così come possono convivere populismo e mercatismo: esiste il populismo di mercato, un’ideologia che cerca il consenso popolare. Probabilmente Salvini continuerà a fare campagna elettorale permanente durante il tempo di Draghi, per poi tornare ad allearsi con la Meloni e vincere le elezioni. Con una sinistra ridotta così, e una legge elettorale come il Rosatellum, la destra potrebbe perfino fare il grande balzo in avanti e ottenere i due terzi dei seggi, necessari per cambiare la Costituzione senza passare da un referendum popolare.

IL MOVIMENTO CINQUE STELLE
Il Movimento è anch’esso approdato all’europeismo, ma non a quello di taglio liberista. Tant’è che, a livello europeo, intende aderire al gruppo Socialisti e democratici. Sta diventando, inoltre, un partito. Con il problema, che hanno oggi tutti i partiti, di essere una struttura con vita democratica e partecipazione. Questo strano partito -populista di sinistra, europeista antiliberista, ecologista- dovrebbe ora collocarsi definitivamente nel centrosinistra, alleanza in cui ha dato il meglio di sé. Ma, insieme alla scelta delle alleanze, il M5S ha un problema di identità. Senza sapere dove andare è inutile tutto il resto, la dissoluzione continuerà. Servirebbe un manifesto valoriale. Oggi nessuno si interroga sulle grandi questioni dei “fini”. Sono tutti presi a salvare se stessi. E’ questa la miseria della politica, e in particolare della sinistra. Non sapere indicare modelli di civiltà, orizzonti di liberazione, un senso della vita. Il Pd ha del tutto dimenticato Gramsci, il M5S non sa nemmeno chi sia. Un modello di società lo ha solo il Papa. Non si può opporre la propria debolezza al passato che avanza. Ma forse serve una lunghissima marcia. Mentre i poveri e i subalterni, che aumentano ogni giorno, aspettano chi li rappresenti veramente.

IL PD
Anche il Pd ha, come i Cinque Stelle, i problemi -connessi- delle alleanze e dell’identità. L’alleanza tra Pd, Cinque Stelle e Leu non è solo necessaria per evitare che la destra vinca a piene mani. Rappresenta un rapporto virtuoso, di influenza per il cambiamento reciproco. Anche il Pd ha dato il meglio di sé in questa alleanza. Ma ora, dopo la sconfitta, anche il Pd sta per dissolversi e ha bisogno di una rigenerazione radicale, di interrogarsi sui “fini”. Non abbiamo assistito alla morte di tutte le politiche. La politica della destra ha retto meglio all’urto. Abbiamo assistito al funerale di quella politica -la sinistra- di cui sopravviveva un’ingannevole crisalide.
E’ vero, con il Governo Conte il Pd ha fatto anche cose buone. Ma senza un orizzonte, se non quello elettorale. Tant’è che è stato sconfitto. Le scelte opinabili di Mattarella vengono dopo. Prima c’è stato il fallimento dell’alleanza con i Cinque Stelle e Leu. Non era sbagliato cercare i responsabili. Anch’io ci ho sperato: bastava aggregare tutti coloro che alle elezioni erano stati eletti con Pd e M5S. Non ci si è riusciti per responsabilità di questi parlamentari, privi di ogni autonomia: nemmeno sul Rinascimento in Arabia Saudita, il Paese dove uccidono gli oppositori e lapidano le adultere, c’è stata una differenziazione! E tuttavia la responsabilità è anche dei partiti che li hanno eletti, perché privi della forza attrattiva di un disegno di Paese.
Le dimissioni di Zingaretti chiamano a una resa dei conti che è salutare. Il termine da lui usato, vergogna, pesa come un macigno: la crisi del Pd è strutturale. Quando fu eletto, Zingaretti qualcosa innovò, ma la vera rivoluzione rispetto al renzismo non la fece. Anche perché avrebbe dovuto farla rispetto al suo antefatto, la stagione veltroniana che diede l’imprinting al Pd, imprimendogli una curvatura liberale e ponendo le basi del suo elitarismo e del suo divorzio dai ceti popolari.
Serve un big bang. Con un partito che è nato senza una visione critica della globalizzazione e delle diseguaglianze crescenti, e che è subito diventato un trust di comitati elettorali, senza formazione ed elaborazione politica, non si va da nessuna parte. Ho sempre pensato che il Pd fosse irriformabile. Poi ho conosciuto la sinistra radicale: anch’essa fallita da tempo. Mentre i Verdi, presenza nuova in tutta Europa, in Italia sono debolissimi.
Siamo al capolinea per tutti. Fine della corsa, ora si scende. Bisogna ricominciare da capo, se non vogliamo che resti solo Salvini.
Intanto non resta che sperare che il Governo Draghi porti avanti le vaccinazioni, investa in sanità e utilizzi al meglio i fondi europei, senza tradire l’ambiente e contrastando almeno un poco l’aumento delle diseguaglianze. Di più non potrà certo fare. Di fronte alla tragedia della pandemia, a quella del lavoro che scompare e dei diritti che vengono smantellati, serve rimettere al centro la politica, il progetto, l’orizzonte. Per rappresentare l’enorme sofferenza sociale in questo tempo durissimo. E’ inutile discutere, a sinistra, se il Governo Draghi esprima o meno “la politica che vogliamo”. Il punto è che la sinistra una politica non l’ha più.