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Luci della città

L’unità di tutte le vittime, da Aigues-Mortes a Minneapolis

di Giorgio Pagano

New York, incrocio tra Boulevard Malcolm X e Boulevard Martin Luther King  (2008) (foto Giorgio Pagano)

Domenica scorsa ho partecipato, in piazza Mentana, a una bella manifestazione organizzata da due ragazze, Camilla e Lucilla, e dai loro amici: un sit-in antirazzista, nell’ambito della mobilitazione mondiale Black lives matter dopo la morte del nero George Floyd, strangolato da un poliziotto a Minneapolis. Era la prima volta in piazza dopo quasi quattro mesi. L’ultima era stata a Sarzana, il 13 febbraio: la presentazione -organizzata dall’associazione Volta la carta- del libro di Enzo Barnabà “Aigues-Mortes, il massacro degli italiani”, la storia dell’uccisione degli operai italiani nelle saline francesi, nel 1893. Un episodio di violenza razzista che ci colpì quando i migranti eravamo noi.
Due occasioni, molto diverse tra loro, all’insegna dell’antirazzismo. Due boccate d’ossigeno, e non solo perché in mezzo c’è stata la pandemia. Ma perché ieri come oggi le cacce all’uomo si ripetono, e non bisogna smettere di ricordare, di indignarsi, di lottare per l’eguaglianza e la fratellanza. E’ ciò che avvenne dopo Aigues-Mortes. E’ ciò che sta avvenendo dopo Minneapolis.

IL MASSACRO DEGLI ITALIANI
Il massacro di Aigues-Mortes fu, disse il filosofo marxista Antonio Labriola, “una tragedia del lavoro”, della guerra tra poveri. Gli italiani, a fine Ottocento, emigravano all’estero in cerca di lavoro: l’agricoltura non bastava più ad assicurare la sussistenza. Andavano dovunque ci fosse un meschino salario da guadagnare, disponibili ai lavori più umili e faticosi, come quello nelle saline della Camargue. Qui si lavorava a cottimo: guadagnava di più chi si sbatteva di più, e gli italiani lavoravano sodo. Il sistema suscitava quindi ovvie rivalità. Gli operai francesi, sobillati dai politici nazionalisti, vedevano nell’immigrazione italiana una delle cause della loro miseria. Prevalse in loro, spiega Barnabà, “il meccanismo psicologico di chi sfoga sull’altro l’odio che prova nei confronti della miseria di cui è intessuta la propria storia passata e presente”.
La ricerca di Barnabà restituisce appieno alla memoria ciò che accadde: gli scontri sul cottimo, i primi litigi scoppiati per futili motivi, i sette francesi leggermente feriti, la rivolta contro gli italiani, dopo che qualcuno soffiò sul fuoco della tensione esistente. Fu un sadico massacro all’insegna del “Morte agli italiani! Fuori chi viene a mangiare il pane dei francesi!”. Le autorità francesi ottennero il licenziamento degli italiani e puntarono alla loro espulsione, accompagnandoli alla stazione. Ma nulla poteva ormai fermare la follia collettiva e la “caccia all’orso”: gli italiani venivano infatti chiamati “orsi”, come fossero animali. Dieci furono uccisi, molti feriti: con forconi, randelli, pietre, fucili. La maggior parte della popolazione assistette passivamente, solo pochi -parroco in testa- prestarono aiuto alle vittime.
Nella zona mancava un’organizzazione in grado di sviluppare la solidarietà di classe tra gli operai. Tant’è che i massacratori innalzarono insieme il tricolore e la bandiera rossa: “le nozioni di patria e d’anarchia -spiega l’autore- si mescolano e si confondono nel venire in soccorso alla miseria operaia”.
Subito dopo si tenne, a Reggio Emilia, il Congresso del Partito Socialista Italiano, che aveva un anno di vita. i socialisti ribadirono l’invito ai socialisti stranieri a intervenire politicamente tra le masse degli immigrati italiani, facendoli entrare nelle loro organizzazioni, e richiesero alle Camere del Lavoro italiane di creare delle sezioni specifiche per l’immigrazione. Gradualmente le cose cominciarono a cambiare. A Marsiglia si tenne una manifestazione internazionalista di operai francesi e italiani. La risposta dei socialisti -ma anche degli anarchici- fu ammirevole, grazie all’impegno di figure come Antonio Labriola e Giacinto Menotti Serrati. Il secondo fu un instancabile organizzatore dei diritti dei migranti, dalla Svizzera agli Stati Uniti. Il primo segnò l’indirizzo teorico: a chi aveva detto che Aigues-Mortes smentiva l’Internazionale Socialista, Labriola rispose al contrario che l’eccidio confermava le idee della solidarietà e della fratellanza del socialismo. Sia gli uccisi che gli uccisori erano infatti vittime del sistema capitalistico. Labriola si batté per dare avvio alla necessaria opera “di studio, di esame, di minuta e paziente preparazione” per difendere gli interessi comuni di tutti i lavoratori. Da lì nacque un’impresa eroica, di sezioni, di leghe, di cooperative, che sopravvisse per decenni.
La storia non si ripete mai tale e quale, ma le analogie con l’attualità sono evidenti: il ricompattarsi attorno alla dimensione etnica, la creazione dell’antagonismo noi/loro (con il “noi” che si colloca dalla parte delle vittime), l’emarginazione sociale e l’ignoranza quali “terreno di coltura” della violenza, la ricerca del capro espiatorio, la xenofobia che soffia sul fuoco del pregiudizio e della paura. Quindi dalla storia si può sempre imparare qualcosa.

IL MASSACRO DEI NERI
La storia del razzismo negli Stati Uniti è molto diversa. Il Paese nacque con il “peccato originale” non solo del genocidio degli indiani nativi ma anche della schiavitù dei neri, abolita solamente nel 1865 dopo una guerra civile. Da quel momento la ferita del razzismo ha segnato lo sviluppo dell’America, dando vita a costanti contrasti. Nel primo Volume di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata” ho raccontato le lotte dei giovani americani degli anni Sessanta, di Martin Luther King, di Malcolm X, di Cassius Clay diventato Muhammad Ali… Come tanti, mi illusi che l’elezione del primo Presidente afroamericano, nel 2008, portasse a una nuova America “post-razziale”, capace di rimarginare la ferita del “peccato originale” americano. Ma già nel 2009 un sergente della polizia di Boston arrestò un docente universitario nero perché disturbava un vicino. Barak Obama invitò entrambi alla Casa Bianca, ma il tentativo di conciliazione fallì. Da allora i contrasti razziali sono in continua crescita.
Se c’è un collegamento con le vicende di Aigues-Mortes è che oggi, a motivare le proteste, non c’è solo la rabbia per le violenze della polizia, c’è anche quella di chi soffre la povertà e le diseguaglianze sociali: certamente i neri, ma non solo. La povertà e le diseguaglianze sociali colpiscono tutti i lavoratori, indipendentemente dal colore della pelle. Erano già difficilmente accettabili prima del coronavirus, ora sono diventate insopportabili.
Per questo in strada non sono scesi solo gli afroamericani, ma anche tanti bianchi e latini, che sempre più sentono sul collo il ginocchio mortale non solo della perdita dei diritti ma anche della precarietà della vita. Da qui la scelta di una moltitudine di poliziotti di inginocchiarsi davanti alle proteste, di unirsi ai cortei, di tendere la mano ai neri e ai giovani. E’ stato il messaggio più potente: significa che c’è un limite a tutto, e che le coscienze possono cambiare. Non era mai successo prima.
Come dopo Aigues-Mortes, anche dopo Minneapolis la strada da seguire è sempre la stessa: l’unità di tutti i perdenti sociali, di tutte le vittime dei processi sociali del sistema dominante.

Post scriptum:

L’articolo è dedicato a Francesco Guccini, che oggi compie ottant’anni. Le sue 161 canzoni mi hanno accompagnato per tutta la vita.
Il tema di oggi richiama “Auschwitz”, la più bella canzone antirazzista:
“Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello
Eppure siamo a milioni in polvere qui nel vento, in polvere qui nel vento”.
Ma richiama anche “Don Chisciotte”, la più bella canzone sulla sete di giustizia dei perdenti sociali:
“Nel mondo oggi più di ieri domina l’ingiustizia,
ma di eroici cavalieri non abbiamo più notizia;
proprio per questo, Sancho, c’è bisogno soprattutto
d’uno slancio generoso, fosse anche un sogno matto…
Mio Signore, io purtroppo sono un povero ignorante
e del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente,
ma anche ammesso che il coraggio mi cancelli la pigrizia,
riusciremo noi da soli a riportare la giustizia?
In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,
dove regna il “capitale”, oggi più spietatamente,
riuscirà con questo brocco e questo inutile scudiero
al “potere” dare scacco e salvare il mondo intero?
Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perché il “male” ed il “potere” hanno un aspetto così tetro?
Dovrei anche rinunciare ad un po’ di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà?
Il “potere” è l’immondizia della storia degli umani
e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte:
siamo i “Grandi della Mancha”,
Sancho Panza… e Don Chisciotte!”