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Luci della città

L’alternativa che non c’è

di Giorgio Pagano

Alpi Apuane, la Pania della Croce  (2017)  (foto Giorgio Pagano).

Mentre ascoltava il dibattito alla Camera sulla formazione del Governo Conte, Romano Prodi ha pensato: “Io vedo un’opposizione senza alternativa. Ma non si può fare opposizione senza alternativa, questo è il punto. L’alternativa è parte essenziale del sistema democratico” (“la Repubblica”, 8 giugno 2018). Prodi ha ragione: il Governo Conte è in luna di miele con gli elettori certamente perché è stato appena eletto, ma anche perché l’opposizione non ha lo straccio di un progetto, e la sinistra è tutta da rifare.
Nell’intervista citata, il giornalista ha detto a Prodi: “Prima di questo esecutivo ha governato l’area che tradizionalmente è di sinistra”. La risposta dell’ex premier è stata caustica: “Ah sì?”. In realtà il problema viene da lontano, dalle scelte -che videro la corresponsabilità di Prodi e di tutti gli altri leader della sinistra italiana- che hanno progressivamente segnato la subalternità del socialismo europeo al neoliberismo. La sinistra è rimasta schiacciata dal peso del dominio dell’economia sulla politica. Un mondo è andato in pezzi: di identità, di concetti, di linguaggi. La sinistra per come l’abbiamo conosciuta è finita. Così Andrea Ranieri ha commentato il voto del 4 marzo:
“Sono venuti in evidenza i limiti di una elaborazione politico-culturale del tutto inadatta e incapace di leggere le dinamiche nuove che si stavano aprendo e, in maniera drammatica, l’autoreferenzialità della sinistra, la voglia disperata di riprodurre se stessa, senza fare i conti con il cambiamento. Ma una sinistra che ha come compito di produrre se stessa, è destinata a riprodursi ogni volta sempre più in piccolo fino a sparire” (“Una città”, aprile 2018).
Ma può rinascere una sinistra fuori da questa devastazione? Forse ci vorrebbe un novello barone di Munchausen, capace di tirarsi su dal pantano aggrappandosi al proprio codino di capelli.

LA SINISTRA PUO’ RINASCERE?
In queste settimane abbiamo assistito a uno spettacolo stupefacente: nel Pd e nei partitini della sinistra l’analisi della sconfitta è stata inesistente, la reazione dei gruppi dirigenti burocratica, le manovre dei capicorrente identiche, come se nulla fosse cambiato. A Spezia ho visto che Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana hanno organizzato un’assemblea sul tema “La democrazia al tempo dei mercati”, mentre Liberi e Uguali organizzerà un convegno dal titolo “Quale unità della sinistra dopo la sconfitta?”. Dato che giugno è per me in gran parte un mese di impegno in Africa, non ho potuto né potrò partecipare. Provo perciò a fornire qualche spunto di riflessione in questa sede.
A partire da una considerazione: è finita la sinistra che abbiamo conosciuto, ma se per sinistra noi intendiamo il tentativo di accorciare le distanze tra chi ha e chi non ha, l’opposizione alla concentrazione del potere socio-economico nel nome del principio dell’eguaglianza, allora della sinistra -di una sinistra radicalmente nuova- c’è ancora bisogno. La differenza tra destra e sinistra oggi va però integrata con la differenza tra liberismo e antiliberismo e con la differenza tra sistema e antisistema. Lo so che queste due differenze, in particolare la terza, non vedono dalla stessa parte molte forze che si definiscono di sinistra: ma o si chiariscono questi punti o non si fanno passi in avanti. C’è una sinistra che è filoliberista, così come c’è una sinistra che, come spiega Thomas Piketty nel suo libro “Sinistra di bramini contro Destra di mercanti: la crescita della diseguaglianza e la mutata struttura del conflitto politico”, è diventata “braminica”, cioè castale (i bramini sono una delle caste sacerdotali della società induista).

CONTRO LA SINISTRA CASTALE
Io mi sono distaccato dal Pd fin da subito (di fatto non ho mai aderito, e non l’ho mai votato) sia per il suo neoliberismo sia per il suo essere partito “braminico” dell’”oligarchia dei giri” (del potere). Certamente il Pd ha quadri periferici di provata esperienza, amministratori capaci, e anche un personale politico centrale in cui non mancano dirigenti di fede democratica e competenti. Ma al tempo stesso il Pd a livello locale, soprattutto dove ha a lungo governato, si è incistato con il mondo degli affari e si è fatto potere dominante. E a livello nazionale è diventato, a dispetto delle figure dignitose che ancora lo abitano, punto di riferimento dei ceti medio-alti del Paese, e soprattutto raggruppamento di ceto politico impegnato a presidiare la propria collocazione nel Parlamento e nel governo. Con un vasto mondo di “famigli”, che costituisce un vero e proprio “sistema”. Tornando alla mia esperienza personale, devo dire che, dopo il distacco dalla politica “tradizionale”, mi sono faticosamente costruito una nuova vita senza chiedere niente a nessuno, impegnandomi in associazioni e ong con cui ho lottato partecipando a bandi, perdendone molti e vincendone qualcuno, il che mi ha consentito alla fine di avere, sia pure da lavoratore precario, quasi lo stipendio medio del metalmeccanico che ho sempre avuto (era la regola per i funzionari del Pci). Ma in questi anni non ho potuto non notare, con dolore, che dentro e accanto al Pd si è sviluppato, nei Ministeri fin giù nei Comuni, un “sistema”, di consulenti, di imprenditori, di faccendieri, che si è arricchito grazie alla “fedeltà” al potente di turno e non certo grazie al “merito”. Anche da qui passa la rinascita della sinistra: va abbattuto questo “sistema”, quello dei “famigli” e soprattutto quello dei “potenti”:
“Bisogna prendere atto che la possibilità di ricostruire qualcosa non passa più dalla politica di professione, dalla politica di mestiere” (cito ancora Andrea Ranieri in “Una città”). Il che vale, come spiega bene lui, anche per i partitini di sinistra:
“Al congresso di Sinistra Italiana, nel documento conclusivo c’era scritto: ‘Staremo nelle istituzioni ma non saremo gli uomini delle istituzioni, ci presenteremo alle elezioni ma non saranno le elezioni il nostro ragion d’essere, useremo tutti gli spazi della politica per aprire gli spazi alla politica vera, quella che conta, che si fa nelle fabbriche, nei quartieri, nei posti dove lavori’. Invece, poi, hai fatto un’operazione di lista elettorale in cui l’unico problema era provare a garantire un posto in Parlamento a quelli che c’erano, l’esatto contrario di quell’idea di rifondazione della politica. Per cui per me quell’esperienza è chiusa e se nasce qualcosa di nuovo non nasce da lì”.

RIPARARE IL VASO DEL PD O COSTRUIRE UN VASO NUOVO?
Qualche settimana fa gli amici del Tigullio dell’associazione “Il pane e le rose” mi hanno invitato a Chiavari a discutere del futuro della sinistra con Vannino Chiti, dirigente del Pd e amico di lunga data nonostante le nostre diversità di vedute in politica. Nell’occasione ho presentato il suo ultimo libro “La democrazia nel futuro” (scritto prima delle elezioni del 4 marzo). Leggiamone qualche passo:
“La sinistra non può non appiattirsi sull’esistente. Il realismo non è acritica esaltazione del mondo così come è, ma progetto di futuro e comprensione di tempi nuovi… E’ indispensabile ridisegnare i valori e, su questa base, il perimetro di una sinistra del terzo millennio. Non conta il nome: socialisti, laburisti, democratici, Syriza, Podemos, o altri ancora. Valgono gli ideali e i programmi. Non si è di sinistra se non si colloca al primo posto l’obbiettivo di realizzare una globalizzazione dei diritti, delle libertà, della democrazia… Non si è di sinistra se si abbandona il welfare, anziché consolidarlo, rinnovandolo nella sua destinazione universalistica e nelle sue finalità di eguaglianza. Non si è di sinistra se non si combattono le rendite vecchie o nuove, ancorando il fisco alla progressività dei redditi. Non si è di sinistra se non ci si pone l’obbiettivo di uno sviluppo che faccia dell’ecologia il suo fondamento… Non si è di sinistra se si smarrisce l’importanza dell’uguaglianza di genere e dei diritti di chi ha differenti opzioni sessuali, come condizione per una trasformazione dei nostri modelli di vita. Non si è di sinistra se non si assumono non violenza e costruzione della pace come imperativi assoluti”.
Ho discusso con Chiti sostenendo la tesi che il Pd non sia un partito di sinistra, e che il terreno di gioco vada cambiato. Ha ragione lo storico Piero Bevilacqua:
“Da questa deriva non si esce estromettendo Renzi e promettendo un cambio di marcia. Occorre avere il coraggio intellettuale, oltre che politico, di riconoscere che ‘l’amalgama mal riuscita’ del Pd non è stato che il compromesso fra due grandi culture politiche del ‘900 giunte nel fase del loro esaurimento storico. Erano singolarmente inadeguate già alla fine del secolo, di fronte all’esplosione della questione ambientale, alla rivoluzione tecnologica, ai processi di mondializzazione, allo scatenamento del capitalismo finanziario. Il Pd è nato vecchio. Da lì nulla può venire se non di drammaticamente inadeguato alle necessità presenti. Occorre che questo ingombrante patto si risolva nelle sue parti e liberi le sue energie migliori. Oggi è l’occasione per dire fine a questa esperienza. Solo il suo scioglimento potrebbe favorire quello di tutte le altre, pur vitali, sigle sparse nel Paese, per dar vita a un’assemblea costituente, che duri anche dei mesi, in grado di raccordare le forze su pochi, essenziali nodi strategici. Bisogna ricostruire un vaso diverso e perciò occorrerà argilla nuova”.
L’elettorato dei ceti popolari il 4 marzo, ho sostenuto a Chiavari, ha parlato chiaro: il Pd è concepito come “successore sistemico” di Berlusconi, e la sinistra radicale come qualcosa che è troppo simile al Pd. Il Pd è uscito drasticamente ridimensionato nelle sue componenti del mondo del lavoro (dipendenti pubblici e privati, pensionati, precari e disoccupati). Di converso la categoria sociale presso la quale il partito è riuscito a contenere meglio le perdite è stata quella degli imprenditori e dei lavoratori autonomi. Il “partito della Nazione” alla fine è nato, ma per sottrazione, non per espansione! Ovviamente Chiti, che del Pd fa parte, non era d’accordo sulle conclusioni della mia analisi. E tuttavia la discussione, a cui hanno partecipato persone che hanno votato Pd o Leu o Potere al popolo o non hanno votato, si è conclusa con l’impegno di lavorare tutti insieme, ripartendo dai territori e dai bisogni dei cittadini, senza fare riferimento a nessun partito. Ecco quel che serve: persone che decidono di costruire migliaia di agorà nei territori, in un atto creativo che permetta ai cittadini di incontrarsi e confrontarsi. Per usare le categorie politiche di Antonio Gramsci, non siamo nella “guerra di movimento” (che non è stata neppure combattuta), ma nella “guerra di posizione”: bisogna tornare a studiare, accumulare saperi, non parlare più tra i soliti, aprirsi a nuove forme di rappresentanza, ripartire dal basso, cercare di capire come è cambiato il popolo, scegliere come terreno di gioco la materialità della vita delle persone e cercare di scatenare la loro libertà e la loro energia. La sinistra nuova, se verrà, verrà solo così.

ECOLOGIA, METICCIATO, FEMMINISMO
Tornare a studiare. E’ quello che, nel suo piccolo, l’Associazione Culturale Mediterraneo cerca di fare da un decennio. Nelle scorse settimane abbiamo invitato un altro amico, Guido Viale, a presentare il suo libro “Slessico familiare”. Un libro in cui ci sono tanti spunti per un pensiero alternativo: una nuova economia, nuovi rapporti sociali, nuovi modi di vivere, nuovi orizzonti spirituali. Ci sono tutte le parole dell’”ecologia della mente” di Gregory Bateson, dell’”economia circolare” di Vandana Shiva, della “conversione ecologica dell’economia” di Alex Langer e del papa Francesco della “Laudato si’”. Così come ci sono le parole contro il razzismo e per il meticciato e quelle femministe contro il patriarcato, altri tasselli decisivi di un pensiero alternativo. Viene in mente Norberto Bobbio nel suo ultimo decennio di vita: lui, il teorico dell’eguaglianza come tratto distintivo della sinistra, ci invitava ad alzare la testa e a guardare lontano, a soffermarci sul “pianeta dei naufraghi”, sull’immigrazione e sul razzismo, e sul “movimento per l’emancipazione delle donne… la più grande rivoluzione del nostro tempo”. Così come viene in mente Enrico Berlinguer e la sua concezione dell’”austerità”: la teorizzazione di uno sviluppo “altro”, di un “altro” modo di produrre e di consumare. Sia Bobbio che Berlinguer si impegnarono per fare avanzare idee nuove, che non facevano parte del patrimonio culturale della sinistra socialista e comunista. Non dobbiamo fare tabula rasa del passato della sinistra, ma distinguere -me lo ha suggerito Andrea Ranieri in una chiacchierata di qualche settimana fa, e poi lo ha scritto su “Una città”- tra “macerie”, su cui nulla si può costruire, e “rovine”, che hanno ancora cose importanti da dirci.

COMBATTERE LA PRECARIETA’ DEL LAVORO
La sinistra che (forse) rinascerà non dovrà essere solo ecologista, antirazzista e femminista. Dovrà essere anche, come detto, antiliberista. E quindi lavorista, ma in modo radicalmente nuovo. Dovrà riunificare il mondo del lavoro, mai così diviso, e rendere centrale la lotta alla precarietà del lavoro. Non basta, quindi, una politica economica di impostazione keynesiana basata sull’aumento degli investimenti pubblici. La lotta alle diseguaglianze e la redistribuzione del reddito non vanno considerate come il risultato di un piano di investimenti pubblici che crei occupazione, ma come la condizione necessaria perché esso si realizzi. La crescita dell’occupazione ci sarà solo se sarà rimosso l’ostacolo alla redistribuzione del reddito costituito dalla precarietà del lavoro. Questo nessuna forza che si definisce di sinistra finora lo ha mai detto. Anche per questo il mondo dei precari e dei disoccupati ha votato in grande maggioranza M5S, e poi Lega, e ha relegato in coda Pd e sinistra.

IL RIGORE E LA SOBRIETA’
Ho accennato alla distinzione tra “macerie” e “rovine”. Nelle scorse settimane sono stato chiamato a Genova per intervenire alla giornata di studi dedicata ad Alessandro Natta -Segretario nazionale del Pci dal 1984 al 1988- in occasione del centenario della nascita. Con Natta, imperiese, ebbi, come tutti i dirigenti liguri del partito, una frequentazione intensa. Era un grande intellettuale, con un forte tratto di umanità. Non fui mai “nattiano”. Al convegno ho rivelato che, dopo la morte di Berlinguer, la segreteria della Federazione spezzina del Pci, di cui facevo parte, propose come Segretario non lui ma Alfredo Reichlin, un dirigente di formazione ingraiana. Una Federazione storicamente “di destra”, cioè amendoliana (legata a Giorgio Amendola), allora diretta da Flavio Bertone “Walter”, scelse una personalità della “sinistra” del partito, non un proprio esponente e nemmeno un “centrista” come Natta, cui pure eravamo molto legati. Sentivamo, o almeno io sentivo, la necessità di unire i due “revisionismi” interni al Pci: la tesi amendoliana sul partito unico della sinistra e i contenuti più innovativi, che meglio coglievano le trasformazioni economiche e sociali, dell’ingraismo.
Quel mondo è finito con il 1989. Nel modo peggiore: con la creazione di un partito “liberal”, e non socialista, al posto del più grande partito comunista dell’Occidente. Natta fu contro quel modo, io pure, su posizioni molto diverse che però avrebbero potuto incontrarsi. La riforma del comunismo (la posizione di Natta e di altri) e la rivalutazione dell’eredità del socialismo europeo e del welfare state (la posizione mia e di altri) avrebbero potuto fondersi, come avrebbero potuto farlo i due “revisionismi” del passato. Così non fu. Ma rimangono delle “rovine” a cui attingere: la critica al capitalismo neoliberista.
Nell’ 89 cominciò la perdita di un patrimonio politico e culturale, ma anche umano e morale. A Genova ho ricordato il modo con cui il gruppo dirigente più giovane sostituì, nel 1988, Natta malato: fu contrassegnato da una mancanza di compostezza, di rigore e di educazione che simboleggia la perdita umana e morale. Un’altra “rovina” a cui attingere è allora il rigore, la sobrietà. Su “Una città” (marzo 2018) mi ha colpito il richiamo di Paolo Feltrin a papa Francesco, che in una delle sue prime uscite lavò i piedi ai preti facendo loro un discorso attualissimo anche per i politici, che anche a me è rimasto impresso. In sostanza il papa disse: non seguite le mode, se volete essere buoni pastori di pecore tra le pecore dovete sapere di pecora. Questo è il significato profondo del legame di rappresentanza: guidare il tuo popolo, cercare di essere meglio, ma mantenere l’odore di pecora. Per i politici, soprattutto per quelli che vorrebbero rappresentare i più deboli, significa vivere con rigore e con sobrietà. Senza le scarpe costosissime, le ville, le barche… La sconfitta della sinistra si spiega anche con la mutazione antropologica di un ceto dirigente di arricchiti. Natta, e tantissimi come lui, misero sempre l’interesse generale al di sopra della propria stessa persona. Le generazioni successive hanno invece investito su se stesse, non su un progetto ma sulla propria carriera, sul proprio reddito. E tutto questo non è che il popolo non l’abbia notato, anzi. Anche per questo si è sentito abbandonato dai “bramini”, e si è rivolto altrove.

LA RIVOLUZIONE DELLE CAPACITA’
Su “Una città” Ranieri insiste su “rovine” che anch’io considero molto importanti per il futuro, tant’è che sono un po’ il cuore del mio libro “Non come tutti” (la prefazione di Piero Bevilacqua e il saggio introduttivo sono leggibili su www.associazioneculturalemediterraneo.com).
Scrive Andrea: “Tutto è stato distrutto dall’idea che il punto fondamentale era la conquista dello Stato, era il potere, questo sia nella variante socialdemocratica sia nella variante leninista, su questi uguali! Pino Ferraris ci parlava di Osvaldo Gnocchi Viani, che aveva un’idea della Camera del Lavoro come modo in cui la gente pigliava nelle proprie mani il proprio destino e si ritrovava senza distinzioni. Insieme agli operai c’erano i disoccupati, le donne… Ma Gnocchi Viani fu rimosso sia dai turatiani che dai leninisti, perché era un’idea di socialismo libertario e antistatalista. Pino citava sempre un pezzo di Dole, che nella ‘Storia dei socialisti’, parlando di Proudhon, sostiene che nel mondo le idee di rivoluzione sono state due: la rivoluzione di potenza e la rivoluzione di capacità. La rivoluzione di potenza è quella della conquista dello Stato e dell’educazione delle masse attraverso il governo e il potere. Cioè le masse che vanno guidate. La rivoluzione delle capacità puntava invece sull’aumento di capacità della gente di governarsi da sé. Questa idea fu liquidata come un ‘socialismo da piccoli proprietari, da bottegai’, in nome della grande industria che nasceva. Ora mi chiedo se di questi tempi l’idea della rivoluzione delle capacità non abbia la sua rivincita. Quella di potenza è fallita. La rivoluzione di capacità è quella che apre dei vuoti, non che costruisce dei pieni. In un mondo pieno di tecnocrazia, di consumismo, costruisce dei vuoti, e delle possibilità, per mettere in moto l’intelligenza diffusa può trovare un modo di esprimersi. E ridiventare politica”.
Andrea ha ragione: la sinistra o è sociale o non è, affermava Pino Ferraris (1933-2012), uno dei maggiori studiosi di Gnocchi Viani (1837-1917) e del movimento operaio italiano. La modernità di Gnocchi Viani è nella sua idea di “partito sociale”, nella sua concezione che per superare l’”auto-referenzialità” della “politica dei politicanti”, la questione sociale (in tutta la sua moderna complessità e frammentazione) deve essere il principio fondante di qualsiasi forza di sinistra. Le radici della sinistra stanno nell’autonomia delle persone, nella responsabilità dei singoli, nell’autogestione, in una vita pubblica non separata dalla dimensione etica. C’è, nella storia del socialismo umanitario e libertario, un ampio e inesplorato mondo di “rovine”, di potenzialità, che hanno alla loro base l’idea di eguaglianza sociale e politica, di eguaglianza morale e di dignità, di “rivoluzione delle capacità”. Bisogna recuperarle. Bisogna tornare a studiare e a stare in mezzo al popolo, smettendola di twittare.

Post scriptum:
Dedico l’articolo di oggi all’amico Turiddo Tusini “Volga”, che ci ha appena lasciati. Era una bellissima figura di “ribelle contadino”, diventato politico della sinistra e intellettuale. Di lui ho scritto nell’articolo di questa rubrica “Il ‘ribelle contadino’ e il rastrellamento del 29 novembre 1944” (4 dicembre 2016)