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Luci della città

Ciò che è vivo e ciò che è morto nel Novecento spezzino

di Giorgio Pagano

Spezia all'alba da Fossitermi, con veduta della costa toscana, dell'Elba, della Gorgona e della Capraia    (2014)    (foto Giorgio Pagano)

Il convegno sul Novecento spezzino, promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune e dall’Accademia Capellini, è stato ricco di relazioni interessanti e documentate su molti aspetti della vicenda contemporanea della nostra città, all’insegna, per dirla con le parole dell’assessore Basile, di “uno spirito di ricerca e di studio del tutto scevro da quel tratto di scetticismo da strapaese che talvolta si rileva nella realtà locale”. Ne è emersa quindi la grandezza della Spezia novecentesca, ma non sono stati sottaciuti i limiti e le contraddizioni della sua crescita. Guardando al futuro, non possiamo dunque che distinguere tra “ciò che è vivo e ciò che è morto” nel nostro Novecento: tra le eredità positive e le ipoteche negative.

L’INDUSTRIA TRA STATALISMO E TECNOLOGIE
Come ha ben spiegato Lorenzo Tronfi, le nostre aziende industriali non sono mai state esposte sul mercato e hanno sempre avuto bisogno dello Stato. L’Iri nasce nel 1933, e nel dopoguerra lo statalismo regna ancora a lungo (la grande crisi delle Partecipazioni Statali risale agli anni Ottanta). Pesa il fatto che la nostra industria è stata prevalentemente militare, per due volte “di guerra”: da qui la dipendenza dallo Stato, la scarsità di capitali cittadini, la mancanza di cultura di impresa. Perdurano ancora oggi alcuni fattori extraeconomici: la diffusa cultura della conservazione costruita nel e sul rapporto con lo Stato, all’insegna di un atteggiamento difensivo verso il mercato e di rendite di posizione. La recente vicenda del porto, solo per fare un esempio, ci parla non solo del degrado di certa politica ma anche dell’attaccarsi come cozze di certe imprese alla politica e allo Stato. Così come ci sono fattori strutturali che pesano ancora oggi: la polarizzazione dimensionale delle imprese tra grandi e piccole, con modeste sinergie tra loro, e l’assenza di uno strato intermedio di medie imprese. Non c’è dubbio, quindi, che un sistema imprenditoriale di antica origine abbia contribuito al processo di deindustrializzazione e ostacolato una nuova industrializzazione e un nuovo sviluppo. Le cose cominciano a cambiare, ma l’eredità del passato continua a porre sul presente un’ipoteca di segno negativo.
C’è, però, anche un’eredità positiva: il sapere e le tecnologie. C’è un filo rosso che lega la tradizione industriale del Novecento con le nuove sfide del presente: la nostra tradizione non è la catena di montaggio, non è l’italian style, ma è la costruzione del “pezzo unico”, sistemi che assemblano in modo intelligente i componenti più diversi. La nostra tradizione è la “nave”: ecco perché abbiamo potuto, a cavallo del millennio, riconvertire i vecchi cantieri di demolizione in moderni cantieri della nautica, passare dalla “nave” alla “barca”. Nelle stesse aree e con le stesse maestranze. Certo, in questo processo è cresciuta, nell’imprenditoria spezzina, una cultura non conservativa, aperta al mercato. E’ significativo che il primo cantiere di demolizione sia stato riconvertito non con capitali provenienti dall’esterno ma con capitali cittadini: quelli di Luciano Lotti, che diede vita al porticciolo che porta il suo nome.

IL TURISMO: LA NOVITA’ DELLE CINQUE TERRE E IL RISCHIO DELLA DISTRUZIONE DEL PAESAGGIO
Il Novecento è stato, anche e soprattutto a Spezia, il secolo dell’industria. Il nuovo secolo è e sarà ancora contrassegnato dall’industria tecnologica e innovativa, ma è e sarà sempre più il secolo del turismo, che nel Novecento fu -nello spezzino, non in Liguria- sempre marginale. Il grande fattore di sviluppo turistico, pur senza dimenticare la nuova bellezza della città e i suoi musei, è rappresentato dalle Cinque Terre, che nel Novecento erano un fenomeno di nicchia. A inizio secolo, il manuale del viaggiatore di Karl Baedeker si fermava a Sestri Levante, Spezia era solo una tappa per Pisa e Viareggio. Ancora nel 1958 l’inchiesta “Contadini in Liguria” parlava di “grandezza e miseria delle Cinque Terre”, dove la popolazione contadina vantava, come la parte montana della provincia, “dopo Potenza il primato del più basso reddito”, se non fosse per il lavoro nell’Arsenale della Spezia. Il fatto positivo del nuovo secolo è dunque il superamento della marginalità del turismo. Ma il vecchio secolo ci è di insegnamento: di pratiche da salvaguardare e di pratiche da evitare. Vediamo quali.
Non c’è una storia del turismo a Spezia, perché il turismo è sempre stato di piccoli numeri, ma colpisce il fatto che non ci sia nemmeno in Liguria, dove il turismo c’è da quasi due secoli, ed è stato ed è ancora, nel ponente, di grandi numeri. Eppure non sono mancate le sollecitazioni (si pensi alle inchieste giornalistiche di due grandi intellettuali, Italo Calvino ed Eugenio Montale). Forse questa riflessione ligure non si è fatta perché, per farla, sarebbe necessario mettere in discussione noi stessi in modo radicale. Il che aiuterebbe gli spezzini a evitare gli errori del resto della Liguria e a non far morire la “novità” delle Cinque Terre. Un solo esempio, riferito a Bordighera, la “città delle palme”: i promotori delle sue fortune turistiche scrissero a fine ‘800 pagine profetiche sulla minaccia di distruzione delle ricchezze paesistiche e sulla necessità di non abbandonare la tradizionale agricoltura e il suo paesaggio, indicati come condizioni e orizzonti necessari per lo sviluppo dello stesso turismo. Oggi i siti proposti al turista nelle guide di fine Ottocento sono quasi del tutto scomparsi, e il turismo nel ponente conosce una crisi grave.
E’ il rischio che stanno correndo le Cinque Terre: la rinaturalizzazione che avanza, un’altra Liguria che sostituisce la Liguria storica dei terrazzamenti e della cultura dell’olivo e della vite. Da noi il degrado è la natura non adeguatamente presidiata, non quello degli insediamenti. La “rapallizzazione” si è fermata a Deiva Marina: anche il Golfo dei Poeti, pur con le aggressioni subite, conserva il suo fascino. A differenza del ponente ligure ma anche, va detto, della piana terminale del Magra, il cui senso è stato quasi cancellato da troppi insediamenti e infrastrutture. Ecco dunque l’insegnamento del Novecento: la lotta tra la salvaguardia e la distruzione del paesaggio.

L’ENEL E LA LOTTA TRA VECCHIO INDUSTRIALISMO E AMBIENTALISMO
Un’altra storia che andrebbe fatta è quella dell’ambiente a Spezia. In questo caso il Novecento ci consegna un altro insegnamento: la lotta tra l’ambientalismo e il vecchio industrialismo.
Consideriamo la vicenda della centrale Enel, costruita negli anni Sessanta: fu il simbolo dell’industrialismo dissipatore. Come del resto la vicenda della Snam, in funzione dal 1971. La cultura dominante era quella “sviluppista”. Anche tra i “contestatori”: io ricordo, giovanissimo studente, di aver partecipato a un corteo da Spezia a Panigaglia accanto agli operai per sollecitare l’apertura dell’impianto.
Anche per ciò che riguarda l’ambiente dobbiamo mettere in discussione noi stessi in modo radicale. Negli anni Novanta l’ambientalismo cominciava a farsi strada. C’era chi si batteva per la dismissione della centrale. E chi ne proponeva solo un ammodernamento: ancora quattro gruppi da 1800 MW a carbone, sia pure desolforato. Io mi battei, con Lucio Rosaia Sindaco, per la soluzione che considerai la più avanzata in quella fase: una centrale depotenziata, di 1200 MW, per metà a carbone e per metà a metano. Traguardando la dismissione alla fine di questo nuovo ciclo. E tuttavia oggi riconosco che anch’io, che pure mi scontrai allora con tanti miei compagni “sviluppisti”, ero troppo vincolato dal pensiero del vecchio industrialismo. Avevano ragione i “vinti”, gli ambientalisti. Bisogna fare una storia che non sia solo quella dei “vincitori”, detentori del potere. Bisogna ritrovare i fili spezzati di una storia che non è stata: penso, per la mia parte politica, al discorso sull’austerità e sul nuovo modello di sviluppo di Enrico Berlinguer nel 1977.
Oggi la dismissione della centrale e il riuso dell’area sono la cartina di tornasole per uscire dalle macerie del vecchio industrialismo e far decollare l’economia circolare e sostenibile: non è impossibile concepire il lavoro al servizio della società e del bene comune vivendo in armonia con la natura.

DUE FASI NEL NOVECENTO?
Non mi ha convinto una tesi che ho ascoltato nella tavola rotonda finale: la distinzione tra una prima parte del Novecento spezzino, più dinamica e creativa, e una seconda parte, quella del dopoguerra, più assistenzialista e rattrappita. Certo, nel primo Novecento si costruirono grandi navi, venne Marconi a fare gli esperimenti, e così via. Ma ancora nel secondo Novecento la Germania acquistava i sommergibili costruiti al Muggiano: mi stupì, quando fui ricevuto nei loro splendidi municipi dai Sindaci di Amburgo e Brema, che fossero loro stessi a ricordarmelo. In comune le due fasi hanno avuto l’economia statalista e la scarsità dei capitali cittadini: anche per questo non si investì mai nel turismo. E’ vero, nel primo Novecento, almeno in certe fasi, c’era più lavoro. Ma era lavoro sfruttato, in uno Stato fascista e in una società diseguale. Così come è vero che nel secondo Novecento si costruirono quartieri operai più brutti, per la fretta della ricostruzione e anche per una cultura urbanistica più povera. Ma quegli operai avevano conquistato la libertà e lottavano con qualche successo per lo Stato sociale e una società meno ingiusta. Mentre le donne uscivano finalmente dal silenzio.

LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E DEI PARTITI E LA NOVITA’ DEL CIVISMO
Spezia sta vivendo un mutamento radicale nella formazione della classe dirigente, paragonabile a quello che travolse la sua forma notabilare-liberale all’inizio del Novecento: ce lo ha raccontato, nel convegno, Alberto Scaramuccia (ne ho scritto più volte in questa rubrica: si veda in particolare “Spezia, classe dirigente cercasi”, 24 luglio 2016). La crisi di quella élite politica portò al fascismo, e fu superata solo con la Resistenza e il secondo dopoguerra: cioè con la democrazia rappresentativa fondata sui partiti politici di massa. Ne hanno parlato Egidio Banti e Lorenzo Vincenzi. Oggi questa esperienza è finita. Siamo in piena crisi democratica: il distacco tra cittadini e partiti e tra cittadini e istituzioni non è mai stato così grande. Questa crisi della democrazia rappresentativa e dei partiti spinge verso la democrazia diretta e partecipativa.
Non a caso, a Spezia, siamo di fronte a una grande novità: per la prima volta -dalla fine della guerra a oggi- emerge un ceto civico che di fronte alla crisi del sistema dei partiti aspira a determinare un nuovo quadro politico impegnandosi in prima persona. Nella storia cittadina che ci precede, gli attori dei mutamenti degli equilibri politici erano i partiti, che con la loro capacità di innovarsi e aprirsi determinavano il cambiamento. Si pensi  a quando il Pds candidò Rosaia a Sindaco. La novità dell’oggi, qui a Spezia, è l’emergere di un nuovo attore civico. Che è autonomo e “altro” rispetto all’evidente involuzione del Pd ma anche alle lusinghe delle forze di destra dell’establishment e all’indeterminatezza- voluta e strenuamente difesa- del M5S. La novità è utile per l’immediato futuro della città ed è interessante anche per il futuro: può nascere un laboratorio per i nuovi partiti che verranno. Cioè per reinventare nel nuovo secolo le forme democratiche del Novecento.