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Le migliori intenzioni

Archeologie della memoria

Il lavoro cinematografico di Sara Fgaier. Di Francesca Cattoi.

Ritratto di Sara Fgaier

Distrò, Via Marsala. Thomas seduto ad un tavolo. Lo ringrazio per aver pubblicato una recensione che gli avevo mandato. Mi dice: “Vuoi tenere un blog?”. Sorrido, gli rispondo senza esitazione, lusingata (!) dalla richiesta: “Sì, certo. Cosa devo fare?”. Il blog s’intitola Las Pezia Calling. Non lo legge nessuno. Però dal post dedicato a Matteo Fiorino e al suo fantastico disco Fosforo, è iniziata l’avventura della rubrica. Chiedo a Fabio e Thomas se posso avere uno spazio, dove pubblicare interviste ai Millennial spezzini. Dicono di sì loro, questa volta. Inizio, così, con persone che conosco bene, poi il cerchio si allarga e incontro altri che conosco meno o che non ho mai incontrato prima. Una generazione di talenti e persone per bene, che sono parte della città, anche se, alcuni, sono spesso lontani per lavoro. E così mi capita di trascorrere un paio d’ore con Sara Fgaier (La Spezia, 1982) in Piazza Verdi, quella nuova, con gli archi di Daniel Buren, con tutti quei bei palazzi, a cominciare dal Palazzo delle Poste di Angiolo Mazzoni, che ora si vedono così bene, come dice lei. Ci sediamo al G&M Bar Pizzeria (quello dei cinesi), perché Fiorini è in ferie e il Bar Tonelli ha le serrande abbassate per i funerali delle vittime del crollo del Ponte Morandi a Genova.
Di Sara avevo sentito parlare da Alessio, che è con noi durante questa nostra prima conversazione. Sara è una regista, montatrice e ricercatrice cinematografica. Ha alle spalle esperienze professionali importanti e, coincidenza vuole, ha appena completato un cortometraggio Gli anni, che presenterà alla 75 Mostra Internazionale d’arte cinematografica La Biennale di Venezia il 7 settembre 2018. Quindi, l’incontro scorre fluido, le domande sono reciproche, anche lei è interessata, incuriosita e vuole sapere di cosa mi occupo io, cosa fa Alessio. Forse abbiamo persino buttato lì qualche collaborazione per il futuro. Un incontro estremamente proficuo nel cuore della Spezia, in quella piazza, cui lei, come leggerete, è particolarmente legata.

Cara Sara, la domanda di rito riguarda gli studi che hai fatto e come sei arrivata ad iniziare la tua professione di montatrice e regista cinematografica.
“Ho studiato cinema all’Università di Bologna, il corso di Storia e critica del cinema, per questo il mio percorso nasce da un approccio teorico. Per la pratica del mestiere sono un’autodidatta. Sono stata una cinefila instancabile fin dall’adolescenza e tutt’oggi sono i film a rappresentare la mia più grande scuola. Penso che uno degli aspetti più interessanti di questo lavoro sia proprio quello di scoprire il proprio stile. Per questo ho preferito immergermi subito nel lavoro.
Credo che gli studi a Bologna siano stati la preparazione ideale per intraprendere la professione di montatrice, perché il lavoro di valutazione critica è fondamentale nelle sale di montaggio, lo è sempre stato fin dalla nascita della pellicola. Il montaggio è il luogo dove il film è esaminato, dove ogni singola inquadratura è meticolosamente pesata e valutata. Una sequenza d’immagini deve essere prima esaminata per ciò che essa esprime e ciò che può esprimere rispetto alle altre per decidere dove verrà collocata nel montaggio. Quando stavo scrivendo la mia tesi su Robert Bresson, ho seguito per alcuni mesi una scuola di regia teatrale e cinematografica con Marco Bellocchio, mentre partecipavo alla realizzazione de Il passaggio della linea, 2007, di Pietro Marcello, un documentario sui treni notte in Italia. Ho seguito il progetto come aiuto regia e quotidianamente, per sei mesi, tutta la fase di montaggio. Si era creata una sorta di gruppo di lavoro: prima ho fatto delle demo, poi è arrivata Aline Hervé, che ha sviluppato il lavoro di montaggio. Insomma è lì che ho imparato a montare, osservando Aline e, prima di lei, Pietro”.

Quali esperienze formative e/o professionali consideri più significative?
“A ventisei anni ho lavorato al film che considero il mio battesimo, La bocca del lupo (2009) di Pietro Marcello. Per questo film sono stata aiuto regista, ricercatrice delle immagini di repertorio e montatrice. (Questo film ha vinto il premio come Miglior Film al Torino Film Festival e Miglior Documentario al David di Donatello nel 2010 ndr).
In seguito, ho avuto la fortuna di incontrare persone creative con cui costruire dei progetti, in cui mi sono ritrovata ed in cui ho creduto profondamente, facendoli miei, in modo particolare i film realizzati con Pietro, nei dieci anni in cui abbiamo lavorato insieme.
A trent’anni ho avuto il privilegio di essere scelta per un’iniziativa internazionale di trasmissione del sapere nelle arti. È stato completamente inaspettato, un’occasione veramente unica. Per me ha significato avere tutto quello che non ho mai avuto, ovvero la possibilità di confrontarmi da vicino con un grande maestro, Walter Murch. Ho lavorato con lui per un anno seguendo un suo film a New York e girando con lui per festival e convegni internazionali. È a distanza di anni che ho realmente preso coscienza di quanto sia stata importante come esperienza. È molto raro poter osservare altre persone che fanno il tuo lavoro mentre lo fanno, è stato un grande privilegio”.

Sei cresciuta a Riomaggiore e poi alla Spezia, in centro storico, frequentando la scuola, dall’asilo, elementari e medie fino alle superiori, in Piazza Verdi. Ora vivi tra La Spezia e Roma, come ti rapporti alla città ogni volta che torni? Che ricordi hai di quel passato? Di quella piazza?
“Sì, vengo da Riomaggiore, la mia infanzia è stata un incanto, tra i tuffi e le vendemmie; con la libertà, oggi inimmaginabile, di vivere molte avventure con gli altri bambini, senza pericoli. Nel cinema che ho fatto, come regista, montatrice o ricercatrice, ci sono molte gallerie, treni, scogliere, sprazzi di mare… Nel mio immaginario il treno è molto importante, forse perché sono nata a Riomaggiore, mi ricordo che andavo fin da bambina con mio nonno a vedere i treni che passavano, il famoso Pendolino. Tutte le sere facevamo il giro del paese e dal cancello della stazione lo guardavamo sfilare per un attimo, mi emozionava molto.
Ho poi abitato alla Spezia per tutti gli anni della formazione e della mia educazione sentimentale. Vivevo a due passi da Piazza Verdi, ricordo che riuscivo ad arrivare sempre tardi nonostante la vicinanza alla scuola, correvo con mia sorella, Nadia, ogni mattina, con i dizionari in mano spesso incontrando dei vicini di casa, ritardatari come noi. Ricordo i gruppi di studenti che uscivano dai vari edifici scolastici e gremivano la piazza all’ora di pranzo; l’odore delle arance e la musica che proveniva dalla Silvio Pellico, le medie musicali che ho frequentato, o dal conservatorio, poco più in alto.
Da molto anni vivo a Roma. Vivere in una grande città è sempre più difficile, a volte stressante e faticoso. Spesso penso alla quiete della provincia, al mio paese e alla Spezia. Spero in futuro di avere più tempo per star lontano dalla dimensione urbana”.

Mi hai detto che tuo padre è di origini tunisine. Questo ha influenzato in qualche modo la tua crescita?
“Certo e mi influenza ancora oggi, sono le mie radici. Spero di tornare presto in Tunisia, è un paese che mi affascina enormemente”.

Vorrei che ci raccontassi come è nata la casa di produzione Avventurosa che hai fondato insieme a Pietro Marcello. Il nome è già evocativo delle vostre intenzioni.
“È stato durante il mio anno di studio in America, un periodo lungo di osservazione e riflessione, che con Pietro abbiamo deciso di fondarla per poter realizzare un progetto a cui tenevamo molto, quello che poi è diventato il film Bella e Perduta, 2015. Volevamo avere la libertà di scegliere di lavorare solo ai nostri progetti e a quelli che intendevamo sostenere. Oggi la società è cresciuta, è diventata una realtà solida, estremamente interessante. Da poco, ho scelto di non farne più parte, ma continuo a collaborare come esterna, ad esempio, per il nuovo film, prodotto da Avventurosa, di Alekandr Sokurov che è in corso di realizzazione, per il quale mi sono occupata delle ricerche d’archivio per l’Italia e l’Inghilterra”.

Quali sono gli ambiti di ricerca che più ti interessano nel pensare e sviluppare i tuoi progetti cinematografici?
“Mi interessa collaborare con gli archivi, anche stranieri, e spero di realizzare un progetto, per ora in fase di sviluppo, che mescolerebbe ambiti e linguaggi diversi. Ho già girato una parte del film a febbraio scorso ma è un progetto molto articolato, spero possa andare avanti”.

Un argomento interessante che è emerso dalla nostra conversazione è appunto lo sviluppo di una raccolta di documenti video amatoriali che vadano a costituire una preziosa fonte di testimonianze sulla città. Mi parlavi della Cineteca Sarda dove hai lavorato per le ricerche del tuo ultimo cortometraggio. Puoi approfondire questo argomento e come si collega al tuo metodo di lavoro?
“Ho sempre lavorato su documentari così detti “di creazione”, in cui il film veniva scritto al montaggio, luogo dell’inatteso, di ricerca infinita e scoperta inesauribile di elementi nuovi nascosti nelle pieghe del materiale.
L’archivio è il luogo che ho sempre amato, non è un caso se sono entrata nel mio primo film come ricercatrice. Mi sono sempre trovata a mio agio a lavorare con gli archivi, mi sprigiona una grande adrenalina poter tirar fuori le potenzialità che il materiale ha dentro e vivere scoperte continue. Mi attrae molto per la possibilità di reinvenzione ed anche per l’improvvisazione, il piacere dell’imprevisto, quello che Renoir chiamava “la porta aperta” che non è privilegio solo del set.
Il progetto in Sardegna è nato all’interno del bando “Re-framing home movies”, ho fatto una residenza per poter elaborare una rilettura originale dell’enorme patrimonio di film di famiglia conservato a Cagliari, circa 9000 bobine. Terminata la raccolta ho iniziato a selezionare e a lavorare su molti fondi per poi utilizzarne circa trenta per il film. Il bando mi ha consentito di avere accesso in modo più completo e più complesso ai materiali conservati e alle storie/vite in essi nascoste, offrendomi alcune chiavi di lettura e sollevando alcune problematiche centrali nell’operazione di riutilizzo critico di film di famiglia e di filmati d’archivio dal punto di vista etico, storico, estetico. Mi interessava molto scoprire le realtà coinvolte nel progetto con cui non avevo ancora lavorato: Lab80, Cinescatti di Bergamo, Associazione Museo Nazionale del Cinema, Superottimisti di Torino, Società Umanitaria, Cineteca Sarda di Cagliari”.

Stai per mostrare il tuo ultimo cortometraggio nella sezione Orizzonti Cortometraggi alla Mostra Internazionale di arte cinematografica La Biennale Venezia. Come vivi questi momenti in cui il tuo lavoro verrà visto e giudicato da una platea importante e, si suppone, competente?
“S’intitola Gli anni e nasce all’interno del bando di cui parlavo che mi ha permesso di esplorare i fondi di filmati familiari, perlopiù inediti, della Cineteca Sarda di Cagliari. Qualche tempo dopo leggendo Gli anni di Annie Ernaux, ho trovato il racconto ideale per la partitura visiva e sonora che stavo costruendo. La selezione di alcuni frammenti del testo mi ha spinto a introdurre una voce che via via è diventata un cardine narrativo e a produrre alcune sequenze di un archivio del presente filmate in super8.
La prima con il pubblico è sempre un momento rivelatore. Guardi il film in un altro modo, è un po’ come riscoprirne le intenzioni e verificare ciò che riesce a trasmettere o meno. Sono felice ed emozionata di poterlo presentare a Venezia, nonostante sia un piccolo lavoro mi ha coinvolto molto”.

Quali collaborazioni hai in città? Mi parlavi del tuo incarico di membro del comitato scientifico della Mediateca Regionale Ligure “Sergio Fregoso” inaugurata il 14 aprile 2017 nell’ex Cinema Odeon in Via Firenze 37…
“Con grande entusiasmo ho espresso la mia candidatura per la selezione del comitato scientifico e poi ho accettato l’avvenuta nomina, riconoscendo nell’insediamento della Mediateca una grande opportunità di crescita culturale per la città e per l’insieme del territorio ligure. Sono più di dieci anni che lavoro con gli archivi di tutta Italia, ho pensato che questa potesse essere un’occasione straordinaria per lanciare una raccolta sul territorio e recuperare anche i fondi magnifici di cineamatori che avevo trovato a Genova mentre lavoravo al film La bocca del lupo.
Sarebbe stato necessario promuovere un appuntamento convegnistico-seminariale al fine di mettere a fuoco le funzioni, i servizi, le linee di intervento tematico e di ricezione di risorse necessarie alla Mediateca. Purtroppo, devo registrare che ad oggi non siamo mai stati convocati per aprire una riflessione del genere e per, poi, avviare un processo di effettivo indirizzo scientifico. Spero che qualcosa succeda nei prossimi mesi, anche perché la nomina ha la durata di tre anni ed è già trascorso un anno e mezzo”.

Che giudizio dai della vita culturale della città? C’è qualcosa che ti piacerebbe iniziare qui, anche poi lasciandola sviluppare ad altri?
“In generale riterrei necessario recuperare un maggiore impegno della programmazione culturale per ciò che riguarda il coinvolgimento del tessuto locale e il potenziamento della partecipazione. Coniugare approfondimento e partecipazione, favorire la socializzazione dell’offerta culturale senza flettere sul piano della qualità dovrebbe essere, a mio parere, l’obiettivo sul quale puntare. 
Mi piacerebbe moltissimo poter sviluppare dei progetti alla Spezia, mi è capitato anche di recente di pensarci, durante l’estate che ho trascorso qui. Ho fatto degli incontri interessanti che potrebbero sfociare in piccoli progetti filmici e mi piacerebbe moltissimo, se si raccogliessero le immagini del passato del territorio, poterci lavorare, contribuire alla formazione di quel patrimonio visivo che ci riguarda tutti, pur nell’individualità delle storie che rappresenta, che ci restituisce”.

Alla fine degli anni Novanta, si tenne in città, a cura di Barbara Deana e Maurizio Cavalli, un convegno su Enzo Ungari, sceneggiatore e critico cinematografico, responsabile della sezione Mezzogiorno/Mezzanotte alle Mostra del Cinema di Venezia, diretta da Carlo Lizzani, nelle edizioni dal 1979 al 1981. Tra le sue collaborazioni più note, si ricorda la stesura della sceneggiatura de L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. Ungari morì molto giovane nel 1985, a soli 37 anni, lontano dalla Spezia, a Roma. Del suo pensiero, che conobbi in quell’occasione, mi colpirono due immagini. Nella prima, Ungari paragona le gallerie che portano dalla Spezia a Riomaggiore (forse anche a Manarola) alle dissolvenze della pellicola, descrivendo il paesaggio quotidiano come qualcosa di cinematografico. La seconda era il concetto di “radici liquide”: gli spezzini, e in genere le persone che vivono in luoghi di mare, sviluppano radici liquide, cioè libere, non ancorate così saldamente al territorio, perché il nostro orizzonte è il mare, la sua vastità, l’idea che si possa sempre partire, andare altrove.
Regalo queste due immagini, che mi sono care da allora, a Sara, come porta fortuna per le sue numerose future avventure cinematografiche. Le nostre strade s’incroceranno di nuovo, ne sono sicura, e ci saranno altri ricordi e conoscenze da condividere. E sarà qui, con il mare vicino.