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La riflessione

La Primavera araba tradita dagli estremisti. Ma i giovani non rinunciano alla speranza

Bombardamenti in Libia

La Primavera araba non ha avuto l’esito sperato dai giovani che la animarono. Tuttavia, dieci anni dopo, la disperazione -per la crisi economica e sociale, le nuove forme di repressione, le ondate migratorie- si mescola a semi di speranza.

LA POLVERIERA LIBIA

La situazione più critica è in Libia. La letteratura araba riflette bene la complessità della Primavera. Negli autori libici la paura è il sentimento prevalente. In un racconto di ‘Omar al-Kiddi i bambini temono di diventare grandi perché il mondo degli adulti è scandito da violenze e ingiustizie. Ma forse un barlume di speranza si intravede: il nuovo Primo Ministro Dbeibah ha appena presentato il suo governo, “per avviare la riconciliazione nazionale” in vista delle elezioni di dicembre. Spiega il giornalista libico Farid Adly: “L’iniziativa è stata dell’ONU, su spinta americana. Dopo lo scontro tra Italia e Francia l’Europa è senza peso, non può che adeguarsi. Sconfitto Haftar -sostenuto da russi ed egiziani- per mano turca, uscito di scena al-Sarray -‘inventato’ dagli italiani-, il nuovo governo nasce con le ali spuntate perché non ha un esercito che fronteggi le milizie armate che hanno in mano Tripoli. E’ l’incognita principale, insieme alla gravissima crisi economica. Il nuovo governo è un compromesso, un punto di partenza. Ora serve l’accordo di tutti i Paesi in conflitto per l’egemonia nel Mediterraneo. Se tutto andrà bene, per la ricostruzione civorranno 10 anni”.

LA FRAGILE DEMOCRAZIA TUNISINA
Il Paese meno travagliato è la Tunisia, l’unico dove la transizione dall’autocrazia alla democrazia è ancora in corso. Ma le fragilità sono rilevanti. La crisi economica e le diseguaglianze sono profonde, spiega Alessia Tibollo della Ong Cospe: nel decennio i redditi si sono ridotti di un quinto, la disoccupazione giovanile è al 36%, un milione di ragazzi ha abbandonato prematuramente la scuola, le differenze tra zone costiere e interne -dove un terzo della popolazione vive in stato di povertà- non sono state risolte. Nel decennio più di 90 mila tunisini hanno lasciato il Paese, l’80% sono giovani con un livello di educazione medio-alto. La pandemia -con il drastico calo del turismo e delle rimesse dall’estero- ha aggravato i problemi antichi. A soffrire è soprattutto quella metà dell’economia costituita dal settore informale, escluso dalle misure di sostegno. L’instabilità politica è specchio e causa della crisi economica: il Paese in 10 anni ha cambiato 11 governi, sostenuti da maggioranze frastagliate.
Ma la società civile, protagonista in Tunisia, è rimasta vigile. Da ottobre la protesta è tornata: i manifestanti sono scesi in piazza prima a sud poi a nord, scandendo “la rivoluzione continua”. “I giovanissimi hanno preso la leadership”, spiega la Tibollo. Dice Kais, sedicenne di Tunisi: “Io qui non ho futuro. Non so cosa farò da adulto perché in Tunisia qualsiasi mio sogno non può avverarsi”. 1.600 giovani sono stati arrestati, tra cui molti minori. Per la Tibollo “la repressione è un dato nuovo rispetto agli ultimi anni, un ragazzo è stato ucciso dai lacrimogeni, ci sono state torture”. C’è chi teme una sospensione del processo democratico.

LA NUOVA ALGERIA NATA VECCHIA

I giovani, in particolare le ragazze, sono protagonisti anche in Algeria. Il movimento Hirak nel 2019 costrinse alle dimissioni il Presidente Boutefilka. Ma la nuova Algeria è nata vecchia: crisi economica, disoccupazione giovanile oltre il 30%, impatto devastante non solo della pandemia ma anche del calo del prezzo di petrolio e gas. Hirak ha continuato a protestare, mentre cresceva la repressione. Poi, a fine febbraio, la svolta: il Presidente Tebboune ha graziato alcuni detenuti e ha annunciato elezioni anticipate “per rinnovare l’attuale classe politica, coinvolgendo i più giovani”. “Un primo passo”, dice Said Sahli, della Lega algerina per i diritti umani.

EGITTO, L’INCUBO DITTATURA

Infine l’Egitto, sprofondato in un lungo inverno dittatoriale. Immagini sul web mostrano giovani manifestanti che cantano slogan contro il generale al-Sisi, per denunciare la crisi economica, la povertà -che colpisce un terzo della popolazione-, la repressione. Spiega l’esponente di una Ong, che non cito per ragioni di prudenza: “I prigionieri politici sono 60 mila, migliaia i casi di detenzione preventiva prolungata fino a cinque anni. Dall’insediamento di al-Sisi nel 2013 2.500 persone sono state condannate a morte, 2 mila sono sparite. Non c’è libertà di stampa, i siti internet sono oscurati. Le Ong non possono lavorare in modo indipendente”. E’ questo il clima in cui nel 2016 è stato ucciso Giulio Regeni, e in cui è oggi in carcere Patrick Zazi. Il governo trova i soldi per le armi, ma non per la sanità: il vaccino anti Covid-19 sarà a pagamento, un’ingiustizia sociale ma anche un azzardo sanitario. Come scrive lo studioso Olivier Roy, la Primavera araba fu una ribellione giovanile all’insegna della “dignità”: “è stata tipicamente un movimento sessantottino, non aveva un’organizzazione, apparentemente ha fallito, è stata dirottata dagli estremisti e ha provocato un contraccolpo conservatore”. Ma, aggiunge, “il vento della Primavera araba non ha smesso di soffiare”. Perché aveva alla base un’idea di uomo e di attese sul destino dell’uomo -la “dignità”- che non potranno mai scomparire. Dieci anni fa la rivolta fu intercettata dagli islamisti e non dalla sinistra progressista. Oggi neppure dagli islamisti.

GLI ERRORI DELL’ITALIA

Quale futuro, allora? Dipenderà dagli arabi, ma anche da noi. Come ha rivelato uno studio di ActionAid Italia, le risorse della cooperazione internazionale per favorire lo sviluppo dei Paesi africani sono state in realtà spese per il controllo dei confini e la repressione dei flussi migratori. Ma è da dieci anni che sbagliamo. Un esempio: partecipai, fin dallo scoppio della rivolta contro Gheddafi, e poi dopo la sua caduta, all’unica esperienza della cooperazione italiana in Libia. Con la Ong Alisei operammo nei centri ortopedici per curare i feriti di guerra. Volevamo restare per impegnarci nel sostegno al decentramento amministrativo: ma ci trovammo completamente soli, e dovemmo rinunciare. Il governo italiano si preoccupò solo di difendere gli interessi dell’Eni, e non di sostenere la costruzione dello Stato di diritto e della società civile. Eppure è il sostegno alle strutture istituzionali e sociali e ai corpi intermedi che riduce la possibilità del riaccendersi dei conflitti di 4/5. L’Europa e l’Italia devono aprire gli occhi e investire, finalmente, negli aiuti allo sviluppo.

Giorgio Pagano
cooperante, Presidente di Funzionari senza Frontiere