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I gioielli della Mazzini

Osservazioni sopra l’edizione bodoniana del Canzoniere di Petrarca

Prosegue il tour virtuale fra gli scaffali della biblioteca "Mazzini" che apre i cassetti più ameni e presenta le proprie rarità.

Import 2016

Sembra che Petrarca abbia incontrato Laura una sola volta nella vita, il giorno venerdì 6 aprile 1327, nella chiesa di santa Chiara di Avignone, ma questo fu sufficiente per far nascere un sentimento di amore (non corrisposto) e devozione talmente forte ed intenso da durare tutta la vita e divenire l’oggetto e l’ispirazione dei 366 componimenti contenuti nel Rerum vulgarium fragmenta, meglio conosciuto come Canzoniere. Si tratta di sonetti, canzoni, sestine, ballate e madrigali quasi tutti dedicati a madonna Laura, citata indirettamente nei versi mediante la tecnica del “senhal”, attraverso cioè un termine che, a mo’ di segnale, richiama il nome della donna amata: lauro, laura, l’auro e che diventa una sorta di parola chiave di tutta la raccolta.

A differenza della poetica dello stilnovo, dove l’amore per la donna angelicata ed immutabile era la via per nobilitare ed elevare l’uomo, talvolta sino a Dio, in Petrarca si riscontra la presenza di una passione più terrena e fisica, pur sempre cagione di sofferenza per la non corrispondenza della donna amata. Laura inoltre, pur essendo denotata da caratteristiche che ne fanno quasi un essere superiore, non è immune al trascorrere del tempo ed alla morte che, se l’identificazione con Laura de Noves (n. 1310) è esatta, avvenne nel 1348, a causa della Peste nera. L’irraggiungibilità di Laura resta tuttavia per il poeta una suprema forma di ispirazione e costante riferimento, non ostante la negazione dell’unione e il tormento interiore che ne deriva. In questo, la concezione dell’amore negli stilnovisti e nel Petrarca è invece simile, poiché basata sulla personificazione di amore come signore o “donno”, dominus dell’uomo, che tiranneggia a piacimento il poeta e ne lega e stringe coi suoi lacci il cuore e la vita.

Nel contesto, il rifiuto della donna può essere letto come l’emblema delle dinamiche interne ad ogni consorzio civile. L’amore per questi poeti è, in fondo e platonicamente, desiderio di ottenere il possesso di ciò che per natura li attrae. Esso è tuttavia sempre unidirezionale: è l’uomo (il poeta) che ama non ricambiato la donna. È la decadenza degli istinti e passioni, anestetizzate e frenate nella società civile dalle leggi positive e dogmi religiosi, che diventano consuetudine (opinione pubblica e senso comune) e da cui deriva inevitabilmente conflitto interiore e tormento negli animi più sensibili. “Ieu sui Arnautz qu’amas l'aura / e chatz la lebre ab lo bou / e nadi contra suberna” (io sono Arnaut che raccoglie il vento / e caccia la lepre col bue / e nuota contro la corrente) aveva già detto il maestro dei trovatori, Arnaut Daniel, modello degli stilnovisti e dello stesso Petrarca, per cui è l’amore impossibile, non ricambiato, che spinge il poeta a fare cose impossibili.

Per natura l’uomo, in quanto corpo, è infatti soggetto alle sensazioni di piacere e dispiacere, che ricerca o fugge istintivamente. Nello stato etico egli è obbligato dalla forza delle leggi a rinunciare a parte di questa ricerca, che compensa con la via di mezzo delle piccole concessioni socialmente accettate o ne devia la forza, sublimandola ed elevato ad altro, sino a farsi scudo dietro ideali forti, quali, ad esempio, la concezione della virtù o rettitudine insita nella ragione, di cui non mancano modelli, da Seneca a Kant. In alcuni individui tuttavia l’accordo etico-sociale non è ben accetto, non potendosi ostacolare un bisogno naturale, come reprimere la fame o la sete, se non al prezzo di sviluppare malattia, sofferenza o risentimento, che si manifesta con sintomi più o meno evidenti (nevrosi). Per questo lo stato etico è da taluni vissuto e interpretato come contronatura e l’uomo che vi abita malato. Esso si regge sul compromesso del male minore (garanzia della sicurezza sociale) ma ha da sempre i suoi martiri, quelli che Nietzsche chiamerà, all’interno di una società in decadenza, gli inattuali. In quest’ambito, una singolare analogia accomuna due passi di Petrarca e Leopardi: nel sonetto “Solo e pensoso i più deserti campi” il poeta cerca rifugio e sollievo nell’isolamento che solo il contatto con la natura incontaminata e selvaggia può offrire, lungi da ogni consorzio umano. Tuttavia, ciò non è sufficiente a mitigare il tormento interiore che lo opprime. “Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti, […] negli atti d’alegrezza spenti /di fuor si legge com’io dentro avampi: /sì ch’io mi credo omai che monti et piagge / e fiumi et selve sappian di che tempre / sia la mia vita, ch’è celata altrui. / Ma pur sì aspre vie né sì selvagge / cercar non so ch’Amor nonvenga sempre / ragionando con meco, et io co llui”. La natura non dà quindi sollievo ad un istinto naturale: sorta di apparente paradosso. È un richiamo al Seneca dello “animum debes mutare non caelum” (l’animo devi mutare, non il cielo; ovvero l’inutilità dei viaggi o, più in generale, delle peregrinazioni ed esperienze esteriori per risolvere i problemi interiori), ma, similmente, leggiamo nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” come il poeta contempli un gregge che beato si riposa sull’erba, in perfetta armonia con la Natura, contrariamente all’uomo che non trova quiete né sollievo alle sue preoccupazioni, che sono in questo caso, a differenza (solo apparente) di quelle del Petrarca, filosofiche ed esistenziali. O greggia mia che posi, oh te beata, / Che la miseria tua, credo, non sai! / Quanta invidia ti porto! / Non sol perchè d’affanno / Quasi libera vai; / Ch’ogni stento, ogni danno, / Ogni estremo timor subito scordi; / Ma più perchè giammai tedio non provi. / Quando tu siedi all’ombra, sovra l'erbe, / Tu se' queta e contenta; / E gran parte dell’;anno / Senza noia consumi in quello stato. / Ed io pur seggo sovra l'erbe, all’ombra, / E un fastidio m’ingombra / La mente, ed uno spron quasi mi punge / Sì che, sedendo, più che mai son lunge / Da trovar pace o loco. / […] Se tu [O greggia mia ] parlar sapessi, io chiederei: / Dimmi: perchè giacendo / A bell’agio, ozioso, / S’appaga ogni animale; / Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”. Per il recanatese la realtà non può in generale offrire soddisfazione al desiderio dell’uomo (compresa la sete di conoscere il vero), che deve quindi rifugiarsi nelle illusioni. La frustrazione è, a fortiori ratione, insita nella natura stessa dell’amore, desiderio per eccellenza, come rimarcò Leopardi nel commento alla canzone “Chiare, fresche e dolci acque” del Petrarca (Zibaldone, 3443-6). Qui è evidente come l’insoddisfazione amorosa dell’aretino sia un tutt’uno con l’innamoramento, per cui “pare impossibile [al poeta] di star mai più senza quel tale oggetto [donna amata] e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe” e sappiamo, prosegue Leopardi, che “il desiderio è pena e il vivissimo e sommo desiderio vivissima e somma, e il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è pena perpetua”.

Complessivamente Leopardi, pur mutando giudizio col tempo, considerava Petrarca un malato, o meglio un “malato d’amore”, condividendo in questo l’espressione di lord Chesterfield (“Petrarca is a love-sick poet”, cfr. Zibaldone, 4249) e l’amore in Petrarca era visto come prevalentemente carnale: “il platonismo poi del Petrarca a me pare una favola, perché più d’un luogo de’ suoi versi dimostra evidentissimamente che il suo amore era come quello di tanti altri, sentimentale sì ma non senza il suo scopo carnale” (cfr. Lettera ad Antonio Fortunato Stella, 13 settembre 1826, e Tiziana Piras, “Petrarca nello Zibaldone di Leopardi”, in Ruolo e mito del Petrarca nelle lettere italiane, Carabba 2006). Il Canzoniere del Petrarca ebbe, com’è noto, moltissime edizioni: la princeps fu impressa a Venezia per Vindelino da Spira nel 1470 e altre ne seguirono per tutto il Quattrocento, tra cui si segnala per l’accuratezza filologica, quella del 1472 presso Bartolomeo Valdezocco a Padova. Nel secolo successivo Manuzio tentò di stabilire con maggiore esattezza il testo originale, stampando nel 1501 “Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha” e nel 1514 “Il Petrarcha, sonetti e canzoni di messer Francesco Petrarcha in vita di madonna Laura”, basandosi su presunti manoscritti originali, esaminati dal Bembo e lanciando la moda dei “petrarchini”, volumetti dal formato tascabile (in ottavo) e dal tipico carattere corsivo. Notevole fu anche l’edizione con l’esposizione del Daniello (Venezia, 1541) che introdusse lo studio delle varianti (Venezia, 1549). Nel Seicento celebre fu la versione di Federico Ubaldini pubblicata a Roma nel 1642 dal titolo: “Le rime di m. Francesco Petrarca estratte da un suo originale”, che conteneva anche il “Tesoretto” del Latini e il “Trattato sopra le virtu morali” di Graziolo Bambaglioli. Famosa anche l’edizione curata dallo stesso Leopardi per la collana “Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili” dell’editore Stella, commissionata al recanatese nel 1825 e pubblicata l’anno successivo. In epoca più recente, sul finire dell’Ottocento, furono stampate lezioni di grande rilievo, soprattutto a seguito del riconoscimento dei manoscritti originali del Canzoniere, i codici vaticani latini 3195, autografo e idiografo e 3196, l’autografo cosiddetto “codice degli abbozzi”, che furono poi metodicamente studiati e confrontati nel secolo successivo da Contini per l’edizione critica del Canzoniere per Einaudi nel 1964.

Una solenne edizione del Canzoniere e dei Trionfi del Petrarca è quella stampata dal principe dei tipografi, Giovanbattista Bodoni nell’officina allestita all’interno del real palazzo di Parma (Palazzo della Pilotta) nel 1799, che la Biblioteca civica U. Mazzini della Spezia possiede in un bell’esemplare, ottimamente conservato. A prescindere dal valore filologico della ricostruzione del testo poetico, l’edizione del Bodoni si impone per l’armonia della composizione tipografica, la nitidezza dei caratteri, il grande formato e la qualità della carta, l’uso sapiente dei bianchi e del rapporto tra testo scritto e spazio vuoto. Bodoni, nato a Saluzzo nel 1740, divenne direttore della Regia stamperia in Parma, cui affiancò successivamente una tipografia privata. Negli anni precedenti all’edizione del Petrarca, dalle sue officine uscirono stampe notevoli di autori e testi classici quali Callimaco (Inni ed epigrammi, 1792) Virgilio (Opera, 1793), Longino (De sublimitate,1793), il De imitatione Chiristi (1793, cfr. http://www.cittadellaspezia.com/I-gioielli- della-Mazzini/L- edizione-bodoniana- del-De- Imitatione-182435.aspx), Tasso (Aminta, 1793 cfr. http://www.cittadellaspezia.com/I-gioielli- della-Mazzini/Et-in- arcadia-ego- osservazioni-sopra- l-192343.aspx e Gerusalemme, 1794), Catullo, Tibullo, Properzio (1794), Teofrasto (1794), Tacito (Opera, 1795).

L’edizione del Canzoniere posseduta dalla biblioteca Mazzini, si compone di due parti: la prima contiene i sonetti e le canzoni in vita di madonna Laura, precedute dall’epistola proemiale “Alla colta gioventù” del marchese Gian Giacomo Dionisi di Verona; la seconda i sonetti e le canzoni in morte di madonna Laura, i Trionfi ed alcune rime aggiunte e poesie dirette al Petrarca. La perfezione del Bodoni, sempre alla ricerca del bello tipografico è pur sempre in consonanza col bello poetico del Petrarca, che fa tutt’uno con il Bello inteso classicamente come imitazione della natura. La stampa bodoniana, impeccabile dal punto di vista tipografico, sembra però stridere con il contenuto sofferto dei sonetti: l’armonia e la freddezza neoclassica tipica della composizione del Bodoni, l’uso di caratteri dalle proporzioni enfaticamente epigrafiche sono qui utilizzati per dare forma ad una materia e ad un vissuto di tormento, a sua volta già rinchiuso nella metrica rigorosa dei componimenti e delle rime. Il dogmatismo della facies bodoniana si sforza in ultima istanza di nascondere, mettendolo per contrasto ancora più in luce, quel “secretum” interiore, che l’uomo, talvolta, non riesce a celare.