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Sprugoleria

Sprugoleria

Le inguistare e il vino nostrano

Vendemmia

Certo è che i nostri maggiori, come ho già avuto modo di dire nella prima puntata di questa piccola serie sulla vendemmia sprugolana, non era impresa semplice né tantomeno era cosa facile lavorare la terra su cui coltivavano la vigna. Mi si obietterà che maggiori, dantismo per antenati, è proprio difficile che siano i progenitori di un popolo derivato dall’immigrazione ma io ho sempre inteso il Dna come fatto culturale oltre che genetico. È una cosa che un bel po’ di decenni fa mi insegna quel bel libro della Natalia, Premio Strega nel lontano 1963, che racconta come la parlata quotidiana di ogni famiglia diventa un vocabolario che, come ogni altro dizionario, rappresenta un’identità.

Comunque, per tornare al tema, ho già ricordato che soprattutto per la vendemmia ma anche per intervenire sul pergolato i contadini non esitavano a calarsi sule piante dall’alto, legati in vita con delle funi che li assomigliavano ai funamboli dell’attuale edilizia acrobatica. Ma anche darci con vanga e zappa non era cosa da poco. Tutto dipendeva dal fatto che la terra su cui si lavorava era arida, più che incapace restia a trasmettere l’umore alla pianta che le era stata messa a dimora sopra. Si spargeva un po’ di terra su una pianella ricavata chissà come sulle falde del monte e lì si conducevano i tralci a terra forzandoli a vegetare fra i sassi, come nota tale Andrea Bacci in un suo lavoro di fine Cinquecento in cui dice di storia e virtù dei vini. Per lui è la qualità del nostrano nettare dipende proprio dalla vicinanza del tralcio alla roccia che riverbera sulla pianta il calore ricevuto dal sole. È con questo natural procedimento che si genera un prodotto che, come scriverà poi il Gabriele nelle Laudi, viene messo nelle inguistare.

Se questo è termine che suona stranissimo ed incomprensibile alle nostre moderne orecchie da tanto che è parola ormai desueta, era tuttavia quotidiana nella parlata d’antan per indicare l’ampolla dal ventre panciuto alla Botero ma che si slancia verso l’alto con un collo stretto e lungo quale sarebbe piaciuto a Modigliani, cervice che si allunga flessuosa e snella protendendosi verso bocche assetate, ma anche soltanto golose, per dissetarle. E così rammenta a chi gusti il contenuto che ne zampilla fuori una civiltà antica. Per questa tradizione ancestrale l’atto del mescere diventa patente che certifica nobiltà del gusto, attesta aristocrazia per la qualità, assicura élite del palato. Insomma, è l’antologia dei brindisi speciali che si centellinano perché nella gola non si smarrisca neppure una stilla dell’aroma che sprigionano.

Cin cin a tutti!