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Le indagini del commissario Borachia

Le indagini del commissario borachia

…E quattro!

Racconto a dispense, seconda parte.

Il palazzo della questura

“Povero Mutri*…”

“Non che avesse mai fatto molto per essere amato…”

“E va bene! Ma finire così!”

“Eeeh! che faceva nella vita?”

“Perché? tu non lo sai?”

“Lo avevo perso di vista; perché: tu prima delle informazioni che avrai raccolto ora ne sapevi qualcosa?”

“Beh, no”

“E allora? L’ultima volta che l’avevo visto lavorava ancora al catasto; mi ricordo che ero in fila per sbrigare noie burocratiche alla casetta di mia madre: sai quando non c’erano ancora né i numeri automatici né le sedie e stavi in piedi ammassato agli altri poveri mortali come te…”

“m…mm…”

“Lui stava parlando al bancone con un tipo: ai tempi della scuola era nella classe dopo, quello che il Ponzo non poteva vedere… così, di pelle, senza ragione”

“Il Ponzo! che capolavoro! ah ah! va bé, e poi?”

“Mi aveva lanciato un’occhiata di sfuggita, come non mi avesse mai visto prima, ed era tornato a parlare con quello lì. Con tutta calma”

“Non era cambiato…”

“No, Poi, quando è toccato a me, mi ha ricevuto quasi non mi conoscesse, e ha espletato la priatica senza far nulla per semplificarla né velocizzarla. E ora?”

“Bah! sembra fosse andato in pensione superanticipata da qualche anno: una buona pensione per uno che non aveva compagne né figli. Gli piaceva giocare al videopoker e scommettere, ma teneva ancora la testa sul collo. D’altronde sembra vincesse più di quanto perdeva…”

“Eredi?”

“Naturalmente è la prima cosa a cui stiamo guardando; per ora solo nipoti di chissà quale grado, che abitano altrove, e l’altro giorno altrove erano… Magari nel frattempo salta fuori qualche notaio o esecutore… Ma dimmi un po’: quel tipo dell’altro giorno?”

“Che tipo dell’altro giorno?”

“Ma sì! quello che chiamavate Papaya”

“Ma chi? Pietro Gigliòl? Ma non penserai mica che…” Alberto ride scuotendo la testa

“Non penso niente: o meglio: nel mio mestiere penso tutto, e poi vedo”

“Ma dai, Riccardo! ma non penserai mica che…”

“Vai avanti per favore: col Mutri* come se la passava?” Alberto si fa serio, guarda un po’ l’amico, poi gli parla con calma:

“Senti Riccardo: il poliziotto sei tu. E sei anche bravo. A volte a me è capitato di aiutarti, oppure mi hai raccontato qualcosa e io sapevo di cucirmi la bocca, e magari ti ho dato qualche opinione o informazione…”

“E bé?”

“Hai capito benissimo: non vorrai renderti ridicolo con tutti i tuoi ragazzi e colleghi, per non parlar dei nostri analfabeti di ritorno che…”

“…sta’ tranquillo: so badare a me stesso: prendilo come un mio hobby a tempo perso. Adesso fammi il piacere di rispondermi: come andava tra i due?” Alberto esita un poco, come preso in castagna, poi rassegnato:

“Male. Molto male”

“Ah! e come mai?” Alberto è sempre più compunto, poi sussurra:

“Non lo so…”

“Ma non sai niente! anche l’altra volta! e in quel libro: c’è qualcosa?”

“Ma dai! ma se ti ho detto che non l’ho letto! manco l’ho mai visto!”

“Ah, non l’hai mai visto…”

“No: c’è qualcosa di male?”

“No no. Ma vedi: di quel libro, non si trova un bel niente di niente: né on line, né in libreria…”

°(diminutivo tronco di mutrignone, adattamento standard da toscano mutrione, a sua volta aggettivale da mutria [mù-tria] s.f. (pl. -trie)1 Faccia arcigna, aggrondata, per sdegno o per alterigia 2 non com. Sfrontatezza, sfacciataggine: ci vuole una bella m. per chiedere certi favori ‖ SIN. faccia tosta‖ (accr. mutrióne m. ; inormazioni tratte da Dizionario della Lingua Italiana di Aldo Gabrielli)

 

 

 

Tre settimane dopo il delitto…

“Allora come va?” Alberto è entrato nel  cubo di Riccardo spingendo la porta con la schiena: con le mani sorregge un vassoio rubato al bar vicino, sul quale si offrono solidali e appetitosi due cornetti e due cappuccini fumanti

“…va…” Riccardo lo guarda fra il grato, lo stupito e il perplesso; Alberto appoggia il vassoio sulla scrivania

“Posso sedere?”

“Certo”

“E…ehm…dicevo: come va?”

“Ti ho risposto”

“ummm…: novità sul delitto del Mutri?”

“Di reale niente: Bistracci ha fatto prendere un medio spacciatore; Della Monica altrettanto; lo abbiamo sbandierato subito ai giornali facendo finta che ci sia qualche lontana ipotesi di legame col delitto; han finto di bersela: tanto a loro serve qaualcosa da pubblicare, non è che gli freghi di altro”

“Ti trovo entusiasta”

“Già…: questi qui – indica i cornetti e i cappuccini – li hai portati per consolarmi?” è ora Riccardo a guardarlo stupito

“Consolarti di cosa?!?” il commissario si volta verso la grande finestra rettangolare, in alto sulla parete, alle spalle del suo cubo: guarda i rami alti dei platani che si levano verso il cielo, oggi azzurro; se i muri non ci fossero, quegli alberi apparirebbero come sono: a cercarsi penosamente uno spazio fra i palazzoni grigi, il traffico tanto forsennato quanto inutile, la strada dei camion che corre lungo i silos del porto. Ma d’altronde , se ci si spostasse liberi da impegni verso il mare, e si guardasse dal molo quello stupendo specchio d’argento, chi saprebbe indicare dove stanno i punti buoni e quelli cattivi? dove sta il cantiere artigianale e la spiaggia irraggiungibile e gli scogli che nascondono bidoni radioattivi, di cui i giornali- impegnati in storie di spaccio, di corna, di beghe politiche piccine picciò – non parlano, ma di cui tutti gli agenti segreti del mondo conoscono la collocazione?

“Sai, ho proseguito col mio hobbie, senza dar noia a nessuno”

“Col tuo che???… o mamma no! ancora con Papaya!”

“Già: il tuo amico è morto tre anni fa: lo sapevi?” Alberto ammutolisce con reale sincerità

“No. Morto? e come?”

“Un infarto. Quindi non ne sapevi niente?”

“Ti ho detto di no…”

“Strano: è morto qui da noi, anche se non abitava più qui da tempo”

“Da noi? e cosa ci faceva?”

“Era venuto a controllare casa sua: non l’aveva mai venduta”

“Ah? e le circostanze? non sono chiare a quanto intuisco”

“Ti sbagli: chiarissime per i medici. D’altronde non era solo, ma insieme alla figlia ventenne che fece il possibile per salvarlo” Alberto appare sinceramente dispiaciuto:

“Te l’avevo detto di non perdere tempo. Lo sai com’è qua: non aspettano altro che metterti in ridicolo, si attaccano a tutto…”

“Sai c’è un fatto: ‘sta ragazza non si trova. I vicini han detto che si sarà vista un paio di volte dopo il funerale, per mettere un po’ a posto le cose, e poi basta; ora non riesco a scoprire dov’è…”

“Ma allora sei malato! non ti fermi nemmeno davanti alla morte del soggetto!”

“… com’è che diceva Pirandello? il sentimento del contrario?… : io sto parlando tranquillamente, tu non la smetti di rimuovere ogni lato di questo argomento.

I due si guardano a lungo, poi Alberto sorride indicando con gli occhi i cappuccini e il resto

“Va bene: tregua” fa Riccardo; ma in quel momento il suo cellulare squilla. Lui guarda perplesso il display:

“Dimmi Viglio” … “Ah! e dove?” … … “mmm… siete lì?” .. “Siete già risaliti a…” … … … …… … “Chi??? ripeti!” … … “Hai chiamato tutta la banda?” … “Arrivo subito” Riccardo chiude il cellulare, Alberto lo guarda interrogativo

“Hanno trovato lo Strozzapreti carbonizzato dentro la sua auto, insieme a sua moglie. Lungo il fiume all’altezza di xxxxxxx.”

“Mio Dio!”

“Cosa fai vieni con me?” dice il commissario mentre raccatta pistola giacca etc.. Alberto è una statua di sale

“Hei! dico a te: ti muovi???”

“Sì, sì… lo Strozzapreti Papaya lo odiava dal profondo del cuore…”

 

 

 

…lo spostamento sulla bretella, verso il fiume, scorre in silenzio: il commissario Riccardo Borachia guida tranquillo, alla velocità consentita; di fianco a sinistra sfrecciano “gli altri”: 40, 50, 60 km orari al di sopra, abbacinati dalla fretta. Assurda: il tratto di strada prevede cinque minuti al massimo senza infrangere il codice – per cui, Riccardo calcola in un batter d’occhio, il massimo dell’infrazione ti fa arrivare cinque minuti prima dei guidatori onesti, mentre 5, 10, 15 minuti di ritardo sortirebbero solo un eccomi qua! detto con l’aria di chi ha fatto fin troppo e va ringraziato (al limite uno spocchioso: con ‘sto traffico non si sa come fare… meno male io lo so! -)  singole auto smargiasse e lunghe dirette alle amanti o ai clienti importanti (quanto è costata, quell’auto? segretarie in nero non pagate per mesi? gente in difficoltà aiutata in sovrapprezzo… tasse evase…), piccoli camioncini bianchi lanciati dai padroni convinti di essere martiri del lavoro indispensabili al prossimo: rubinetti rotti, infinitesime forniture di caffé, gelati, pezzi di carne eccetera. Morto un papa se ne fa non un altro: altri dieci, cento, pronti a prendere il tuo posto, non importa se meglio o peggio – pensa il commissario… e allora perché tanta presunzione?!?

Altri sono i veri padroni: tir mastodontici, si muovono apparentemente piano, indifferenti come King Kong o Godzilla attorniati da inutili formiche che gli scaricano addosso armi per loro innocue: basterebbe ti sfiorasssero un momento, o tu li sfiorassi un attimo nel loro peso incalcolabile, e sarebbe la fine. E così è la nostra vita…

Ma il commissario Riccardo Borachia ha anche un altro pensiero:

e se dovessi scrivere la mia vita, le mie vicende, il mio lavoro, o anche solo un singolo suo episodio, come questo… cosa farei? Saprei indirizzarlo in un’architettura strana, originale, moderna, a tratti involuta e incomprensibile, in una lingua che solo l’alfabeto dei nostri precedenti Romani (per nulla antenati né radici, ma solo gente con la testa sul collo) distinguerebbe dal bengalese o dall’armeno? Per la quale i fatti sono solo uno spunto, una scusa, per dire altro: quello in cui nessuno crede ma a cui la letteratura la psicologia la moda il bisogno di essere superiori anche se non li si è alla persona normale, ai fatti (alla vita!), ti obbligano? Quella scrittura di cui – debitamente sorretti da recensioni e circoli doverosamente da te pagati- quattro gatti parlerebbero o fingerebbero di parlare sbadigliando per concederti il lasciapassare di… boh! di scrittore?

No, per carità: impossibile: la scriverei come un gialletto, un pensiero poco curato di un blog gratuito che nessuno leggerà scuotendo la testa; in modo da permettere ai fatti di rimanere tali.

La bretella si snoda come un serpente: grigio opaco, inopportuno di fronte a quei paesini carichi di storia e di arte sconosciuta, a quei boschi lontani ma non troppo, ai marmi lucidi e indistruttibili delle montagne.

E la incrocia, formando una chi greca, l’altro serpente: il fiume, d’argento anche in acqua magra perché accarezzato dai sassi, dai ciottoli bianchi che trasmettono un solo messaggio: noi siamo la materia, la nostra verità: la vostra è altra cosa. In tutto un’altra cosa…

“Perché Papaya ce l’aveva con lo Srozzapreti?” Alberto siede accanto al commissario con un’aria non sua: non sta stravaccato e dolcemente iconoclasta sul sedile, ma ritto, impacciato, quasi apprensivo, quasi si recasse – come in realtà si sta recando – a un funerale inaspettato di gente conosciuta

“Non lo so”

c’è molto silenzio. Poi, per quanto la guida lo permette, Riccardo lancia una rapida occhiata all’ex professore venditore di caramelle all’ingrosso:

“Non lo sai” ripete; e l’altro non ribatte niente

[  il soprannome di Strozzapreti non aveva niente a che fare con eventuali anticlericalismi violenti o nemmeno ipotetici e scherzosi, ma con la frequenza e l’insistenza affabulatoria con cui il protagonista narrava l’abilità della propria nonna a preparare per l’appunto stupendi strozzapreti (una sorta – come tutti sanno – di bighi di pasta; e si chiamano così perché vanno ben “strangalati”, cioè affusolati strozzandoli a mano, e “preti” perché fin dal quattrocento almeno apprezzati nei territori dello Stato Pontificio). La raccontava sempre uguale, ma tale era l’arte e la bravura dell’artista nel descrivere il cibo e quella nonna che nessuno aveva mai visto, da lasciare tutti ammirati: mai persona aveva bloccato il racconto, né protestato sulla sua ennesima riedizione, con pochi aggiustamenti, sulla scia dei lirici greci precedenti alla creazione delle biblioteche alessandrine.]

Portata l’auto al fiume, i due si incamminano arrancando sui sassi irregolari fino all’area già delimitata dai Carabinieri. Borachia mostra il distintivo: “Buongiorno: commissario Borachia; questo è un mio vecchio amico che conosceva le vittime, e mi è indispensabile per le indagini” l’appuntato porta la mano al berretto:

“Sì, ci ha avvertito il maresciallo Berni: prego commissario…”

il Berni… che gliene fregava di colonnelli o vicequestori o territorialità di competenza? lui primo maresciallo superiore aiutante di battaglia, a un anno dalla pensione, e soprattutto con la carriera a stelle strisce, amato dai suoi uomini e dalla gente delle stazioni che aveva avuto in sorte? ).

Accanto all’auto bruciata ma non esplosa un tronco d’albero mozzato, che è sempre stato lì. Affisso al tronco un foglio: la scritta grande, in stampatello: NON CAPIRETE MAI IL NOSTRO AMORE

falsa, per quanto vera, pensa senza alcun dubbio il Borachia.

“Abbiamo forzato solo una portiera, per vedere se si poteva far qualcosa, ma sono morti entrambi da un po’ ” relaziona un gigantesco capo-squadra dei Vigili del Fuoco

“Grazie” fa Borachia.

I due non sono completamente carbonizzati: lui stringe in mano una chiave, probabilmente quella di casa o simili; lei – bellissima come ogni donna matura non presuntuosa quando conosce l’amore – ha la testa appoggiata sulla spalla  e una mano  sul petto di lui ..

“Chi vi ha chiamati? o avete visto voi il fumo?”

“Ci hanno chiamati: una telefonata anonima, brevissima, irriconoscibile. Se vuole sentirà le registrazioni. Le fiamme non erano alte: le abbiamo spente facilmente…”

Borachia si sporge un po’ dentro all’interno dell’auto, quanto gli basta per esaminare l’unico comando centrale del blocco totale degli sportelli, impomatato di attaccatutto” si rivolge all’appuntato:

“Avete già chiamato la banda e la fanfara?”

“No commissario: aspettavamo lei” Riccardo si allontana di qualche metro, armeggia col cellulare e chiama la scientifica. Alberto è una statua di sale pochi metri davanti al parabrezza: non stacca gli occhi dalla coppia.

La lettura è fin troppo facile: l’assassino  ha provocato la morte ritardata dei due; li ha costretti a star qui in macchina, bloccando la possibilità di aprire le portiere. Lo Strozzapreti ha tentato di spaccare il vetro con quello che aveva, ma non vi è riuscito; nel frattempo l’assassino ha dato fuoco all’auto, probabilmente  senza aggiungere combustibile o quasi. Si è allontanato a piedi, telefonando nel frattempo ai Vigili del Fuoco con un cellulare che oramai avrà già distrutto.

Già: fin troppo semplice: ma impossibile, come la volta scorsa, sapere chi potrebbe essere; impossibile prenderlo.

“Vieni Alberto, andiamo” l’ex professore appare poco convinto, ma ubbidisce:

“Cosa farai ora, farai aprire la tomba del Papaya?” gli dice quasi rabbioso

“Può darsi: ma non servirà a niente”

“E allora?!?”

“Bisogna trovare quel libro, quel romanzo: bisogna assolutamente trovarlo…”

 

Lo Strozzapreti e sua moglie Carla si erano conosciuti da compagni di scuola in quarta ginnasio. Alcuni sostenevano che si fossero messi insieme subito, altri sui diciassette anni. Certo facevano coppia, mostravano confidenza da subito, parlando spesso tra loro davano l’idea, senza escludere gli altri volutamente, di avere un canale proprio, sensazioni privilegiate e contenuti loro da comunicarsi e condividere.  Nell’età più bambina dell’adolescenza ciò dava luogo ai soliti atteggiamenti di compagni e compagne circostanti, che loro accettavano con un sorriso benevolo, come dire beh se ci vedete così… mah, chissà! Entrambi si vestivano in jeans, maglietta (e maglione a girocollo d’inverno) normalmente, senza eccedere né nel lusso né nel casual tutt’altro che casuale, cose entrambe molto diffuse nell’ambiente. Per la verità lui eccedeva un po’ nel non cambiare look; soprattutto per quanto riguarda le scarpe, che senza finire nella maleducazione puliva assai poco.

Non puzzavano mai, e ciò secondo Cassiodoro costituisce un segno di rettitudine dell’anima.

Lei aveva i capelli castano-medio, le sopracciglia un poco folte ma i tratti del viso delicati, con le labbra sottili. Corporatura media, slanciata ma con cosce e glutei robusti. Peraltro privi di grasso.

Non frequentavano lumi di chiesa o d’officina, ma sarebbe errato dire che facevano parte a sé: a volte,  solo a volte, li avevano visti alla messa della scuola, a volte a riunioni di rappresentanti degli studenti. Per le raccolte varie davano una mano, senza presentarsi come indispensabili, e con dispendio di tempo e energie pattuiti. Quando lo facevano non stavano appiccicati e avevano un buon atteggiamento con gli altri.

Per quanto riguarda il fare l’amore, c’erano ovviamente varie versioni metropolitane: chi subito, chi al matrimonio, etc. nel mezzo…

Il loro andamento scolastico era accettabile, con scarsa simpatia per i filosofi. Lui però, che al ginnasio aveva rischiato due volte la rimandatura, al triennio era un mago a tradurre il greco: con un vocabolario in mano poteva rendere in italiano in modo sobrio e originale praticamente qualsiasi testo.

Terminate le scuole lui aveva fatto giurisprudenza non vedendo l’ora di finire, poi aveva trovato lavoro in una casa discografica come consulente legale: doveva spostarsi ogni due o tre volte al mese dalla propria città, a volte per giorni, ma nessuno dei due aveva voluto emigrare. Lei aveva fatto la scuola interpreti al Nord; aveva lavorato di nicchia in traduzioni scritte e lezioni private. A volte occasionalmente anche come interprete diretta. Poi avava trovato lavoro nella Città, in un franchising di una grossa casa editrice.

Si erano sposati in chiesa, lei con l’abito bianco ma senza veli pizzi né strascichi, lui in giacca blù con una stripes sul verde, pantaloni fumo di Londra e le golf bucherellate. La festa era stata molto bella e simpatica.

Non avevano avuto figli. Tutti sapevano che per loro era una tragedia, mai palesata senza piangersi addosso, e che aveva aumentato il loro modo di tenersi compagnia.

Delle letture e hobbies dell’uno e dell’altra, all’uno e all’altra con atteggiamento rispettoso non gliene fregava quasi niente. Al sabato sera prendevano un aperitivo lungo e molto alcoolico in un bar della Città, e probabilemente ne parlavano. Due o tre volte all’anno andavano a un concerto, e/o si ritrovavano con i vecchi amici non perduti e non troppo antipatici. Soprattutto a Natale, in cui non lasciavano MAI la Città.

“Allora?” fa Riccardo

“Troveremo quel maledetto libro” risponde Alberto

 

 

 

Il Frecciarossa lascia le ciminiere tozze e  grigie e le grù gialle che contrastano i marmi a strapiombo, attraversa le città di mare: quelle grandi eleganti in qualsiasi stagione e i villaggi di pescatori; raggiunge le colline erbose e le vigne, sosta nella città dove dormono artisti poeti scienziati omaggiati dall’intera umanità, trova la campagna più vasta a cereali e i pascoli rudi e schietti, e infine i pini che introducono lentamente, quasi per magia quasi senza fartene accorgere nella madre di ogni stato e di ogni impero, affollata di stranieri, turisti e non, dove nuovi Neroni, nuovi Caligola ne conducono le sorti mentre gli eredi di Cicerone, con quell’aria di esperti ciclisti passisti, tirano altre fila che nulla possono contro quegli imperi, né lo vogliono. Appare quasi piccola l’immensa cupola che annuncia la stazione minore.

Borachia e Viglietti si muovono anonimi per la pensilina fino all’uscita e dopo un paio di svolte approdano al bar decente pattuito.

Lei è una donna sui quarantacinque, piccola e tutt’altro che spiacevole, dal caschetto castano e le labbra carnose, gli occhi nerissimi, un’espressione da bambina sicura di sé; indossa un soprabito grigio perla che può apparire sobriamente elegante in chi lo sa indossare.

“Buonasera signora: commissario Borachia, e questo è il mio collaboratore: ispettore Viglietti” Viglietti si inchina impercettibilmente sollevando l’angolo destro della bocca

“Buonasera”

“Grazie per aver accettato” la donna li guarda per poco dal basso verso l’alto, seduta al tavolino in disparte, e prima di rispondere dice benevola, ma senza sorriso:

“Prego!” come un uomo lo direbbe a una signora

“Visto che avevo tempo – prosegue – e vista l’effettiva gentilezza dei vostri colleghi di qua, ho accettato; sempre che si stia a quanto pattuito”

“Sarà così” rassicura Riccardo “anzi: se in qualche momento le sembrassse il contrario, ci avverta subito”

“Può starne certo”

“Beh, allora: direi di incominciare. Faccio portare qualcosa?”

“Un caffé andrà benissimo… non so voi…”

“Bene anche per noi” dice Borachia mentre Viglietti annuisce e chiama con un breve gesto il ragazzo del bar per l’ordinazione

“Coraggio dunque” fa la donna

“Sì: siamo qui perché, in questi ultimi tempi, da noi abbiamo avuto due omicidi di persone che , ci risulta, il suo ex marito odiava cordialmente. Premetto che io sarei stato un suo compagno di liceo, se non fossi arrivato proprio nell’anno in cui lui cambiò città” la donna fa un cenno netto e poco entusiasta col capo, poi inarca le sopracciglia:

” e quest’odio di cui dite con tanta sicurezza, da dove verrebbe fuori?”

“Da un mio grande amico, una persona seria, che fu compagno di scuola di suo marito fin dall’inizio” l’aria interrrogativa e muta della donna invita Borachia a proseguire

“Si chiama Alberto: ne aveva mai sentito parlare?” la donna ripete il gesto precedente, ma ‘stavolta con un piccolo impertinente sorriso

“Sì”

“Molto?”

“No”

“Gliene parlò suo marito, ovviamente”

“Sì”

“E in quel poco che le disse?”

“… che era un pezzo .. …..”

“Ah! e… come mai?”

“Non volle mai specificare” (a rieccoci! pensa Borachia) “e i morti chi sono?” rilancia la donna

“Ci arriviamo subito. Prima vorrei chiederle qualcosa sul suo passato matrimonio, se non sono indiscreto…”

“Dipende da cosa chiederà: provi”

“Suo marito è morto da due anni: eravate separati da tanto?”

“Da altri due”

“Ci fu una ragione ben precisa?… voglio dire…” la donna scuote la testa sorridendo tristemente:

“Nessun tradimento da parte di nessuno dei due, se è questo che voleva dire” l’espressione di Borachia sarebbe un invito a  a proseguire; solo ora la donna si distende un poco, abbassa lo sguardo e lo lascia nel vuoto: “Volevo bene a mio marito, e anche lui a me; ci eravamo conosciuti alla presentazione di un libro…”

“Un libro suo?” interrompe Borachia famelico

“No, no: un libro di poesie di un mio amico, a cui lui aveva fatto la recensione. Ci piacemmo subito, a quell’incontro. Mi apparve simpatico, e anche se aveva un ego piuttosto esagerato e invadente, vidi che non era un pallone gonfiato, né un farfallone: chiedeva affetto e considerazione, ma li sapeva anche dare…”

“Viveste bene allora, all’inizio”

“Sì”

“Anche quando nacque la vostra bambina…” la donna guarda i due come dire che stupida, è ovvio che abbiate già preso tutte le informazioni su di noi

“Quello fu il periodo più bello”

” E sua figlia, dopo la separazione, con chi andò?”

“Quando ci separammo aveva già vent’anni, fortunatamente: lavorava già,e aveva già conquistato la propria autonomia”

“Lavora come responsabile di magazzino in un  noto outlet, se non sbaglio…”

“Sì, esatto”

“I vostri rapporti come sono?”

“Non ci vediamo spesso: sono buoni, ma non siamo la madre e la figlia che vanno a cena inseme. loro due sole, reciprocamente innamorate, se è questo che vuole sapere”

“Ora sua figlia dov’è?”

“Perché me lo chiede? Lo sapete già, no? Aveva ferie arretrate e un po’ di soldi da parte: sta facendo un quindici giorni di vacanza in Brasile…”

“m mm: e con il padre?” la donna ride un poco, benevola, a bocca chiusa

“Lei lo adorava; lo andava a salutare quasi tutti i giorni: pensi che a volte lo accompagnò su da voi per curare piccoli affari di famiglia, ad esempio la casa lasciata vuota. Lo accompagnò anche alla presentazione di un libro tutto suo, che aveva finito quando non stavamo già più insieme” gli occhi di Viglietti si dilatano; Borachia si accorge della sua intenzione di intervenire, e lo ferma con un pacato gesto della mano:

“Quale libro? Ricorda il titolo?”

“Guardi, no: davvero”

“Quindi non lo ha neanche ricevuto, né tantomeno letto…”

“So che vi sembra strano: ma è così; in un certo senso quel libro fu un testimone alla rovesica: il testimone della nostra seprazione”

“Ma come è possibile?”

“Beh: poco fa lei mi chiedeva come avevamo iniziato a non andare d’accordo. Quell’episodio lo ricordo ancora bene; quanto seguì lo ho in parte rimosso, e non faccio nessuno sforzo per ricordarlo meglio…. Lui aveva scritto le prime due pagine di quel libro; non c’era ancora un titolo. Sembrava entusiasta, e insistette per leggermele, e nel chiedermi un commento. Come certo già sapete io insegno matematica, ma non sapete che sono appassionata di lettura: di storie di ogni tipo. Penso leggessi molto più io di lui, che pure nei suoi vari lavori free lance con la letteratura contemporanea aveva in continuazione a che fare. Io fui franca: gli annotai alcuni difetti…”

“Tipo?”

“…tipo…: si respirava da subito che la presentazione del protagonista e dell’ambiente non mirava alla storia, al suo fascino che trasporta i lettori con sé, ma all’intenzione dell’autore. L’autore – insomma mio marito – non lo stava scrivendo né per divertimento né per soldi, ma per dimostrare una sua idea

“E questo è male, in letteratura?” la donna sorride:

“E’ molto male: peché la letteratura non è ciò che pensiamo o vogliamo, ma qualcosa che cogliamo per caso e a cui poi diamo una vita nuova, autonoma” Borachia si fa attento e meditativo, pensa che anche Gloria direbbe le stesse cose

“Che cosa c’era, signora, in quelle due pagine?”

“Bah…: il cortile di una scuola in entrata… la campanella che suonava; il protagonista che si riuniva con gli altri ma poi quasi per magìa si ritrovava in disparte: tutto qua…”

“Ah! dunque lei lo deluse nel giudizio”

“Sì si arrabbiò, trovò un sacco di contro-obiezioni ai difetti…; e da lì in poi…”

“Da lì in poi?”

“iniziò a dire – non lo aveva mai fatto – che a me di lui non interessava nulla, che pensavo avesse delle fantasie vittimiste mentre lui voleva dimostrare – ecco, disse così: dimostrare – il male ingiusto che gli era stato fatto. Io avrei voluto aiutarlo: gli chiedevo di aprirsi, di raccontarmi; ma a lui non interessava inquadrare la sua storia con chi lo amava: voleva vincere con successo nell’avere ragione. E da lì in poi…da lì in poi…” per la prima volta la donna abbandona la sua sicurezza, si fa triste, e abbassa la testa scuotendola un poco.

C’è un silenzio piuttosto lungo. Borachia intuisce che è ora di affrontare un capitolo nuovo:

“Lei conosceva  X…. X……, e/o X…  X………?”

“Sono i due morti, vero?”

“Sì”

“Guardi: mio marito parlava assai raramente della sua vita di prima che mi conoscesse. E poi, ora che ci penso, quando lo faceva usava sempre dei soprannomi”

“Le parlò mai del Mutri? o dello Strozzapreti?” la donna guarda Riccardo come colpita:

“Sì… eccome!”

 

 

 

Borachia guarda la donna un po’ più a lungo di quanto finora ha fatto durante il dialogo; lei lo ricambia con uno sguardo che significa che c’è?, il commissario risponde:

“Scusi signora: questo non è un interrogatorio; lei è stata gentile e ci sta dando preziose informazioni. Ma, ripeto, mi scusi: ha affermato più volte che suo marito parlava poco della vita giovanile, dei suoi compagni, e poi le faccio due nomi e lei mi dice eccome! ?”

“Beh… sì, mi scusi” fa la donna sorridendo “mi sono espressa in modo vettoriale e non scalare”

“?”

“Sì, voglio dire: me ne avrà parlato una o due volte per pochi secondi, ma ricordo l’intensità e la sua sicurezza nell’inquadrarli”

“Ah! e come li inquadrò?” la donna tace guardando Borachia perché nel frattempo lui indovini da solo, poi dice sottovoce:

“Più o meno come il suo amico… Alberto, mi sembra…”

“E naturalmente non aggiunse altro”

“No… cioè: dello Strozzapreti disse qualcosa tipo che prima o poi le sorprese dagli altri arrivano quando meno ci se lo aspetta”

Riccardo si lascia andare al primo sospiro da commissario che interroga in servizio, e all’aria da ultime domande:

“Senta signora, questo vettore, questa intensità, la trovò mai in suo marito per qualche altro compagno del liceo, o amico di quegli anni?” la donna non aspetta molto:

“Sì: mi colpì il soprannome: un certo Ragno” .

Ci vogliono pochi secondi perché Riccardo entri in un altro mondo, e riviva chiara ad occhi aperti la figura del Ragno: piccolo, snello, sbarazzino in modo sincero, dimostrava meno della sua età ma non era infantile. Mezzo musicista, mezzo poeta, amico di tutti e da pochi odiato con una cattiveria indescrivibile. Apprezzato a scuola ma mai sopra voti discreti. Pieno di amiche e di donne, era chiamato così non certo per schifo, ma perché -nonostante la statura- era elemento chiave della squadra di pallavolo…

“E ovviamente anche qui, signora, come dicevano nelle dogane prima dell’euro e dei “Ragazzi stile Erasmus”: nulla da dichiarare?” la donna ride sobriamente ma di gusto:

“No”

 

Dopo che il terzetto si è salutato, Borachia e Viglietti risalgono le poche vie che li separano dal treno: viuzze medievali come quella centrale della loro Città, e a pochi metri immensi viali del primo novecento; marmi dove robusti dei custodiscono architetti e scultori indimenticati; chiese con tele dal valore irraggiungibile. Gente normale, serena, quasi provinciale che sembra non rendersi conto del proprio numero; e soprattutto di quanto sta rischiando di cambiare, e quanto è già nelle mani di criminali che della violenza dei film stranieri vintage hanno fatto con naturalezza un modello di vita che non ammette interlocutori.

E risalgono l’Italia accoccolati nel calduccio del corridore elettronico.

“Pensi c’entri qualcosa, commissario?” fa Viglietti dopo un lungo riposo e un lungo silenzio

“Con la testa direi di no…”

“?”

“Con il cuore lo escludo nella maniera più assoluta”

“Che vuol dire?”

“Dunque caro Sandro: con la testa:

la signora è insegnante, non può scorazzare qua e là per trecento chilometri e organizzare delitti quasi perfetti come le pare; comunque, se vuoi controllare permessi e assenze nella scuola in cui presta servizio, appena arriviamo ti dai da fare”

“E con il cuore?”

la signora fa il mestiere che le piace: ragiona nel parlare con i princìpi della materia che insegna, probabilmente con soddisfazione; legge romanzi, se ne intende, probabilmente è apprezzata dagli amici. E’ una persona soddisfatta. E poi… lo sai che cosa fa un buon poliziotto quando parla con una quarantenne graziosa non più sposata?”

“Cerco di seguire i nostri metodi, senza farmene accorgere…”

“Sì ma dove poggi lo sguardo?”

“Commissario, sta scherzando?” dice Viglietti sorridendo

“No: li devi poggiare sull’anulare sinistro, dove la nostra amica sfoggia un brillante di discreta fattura: il lutto, l’amore passato, i suoi momenti brutti, quelli belli, sono del tutto elaborati: in queste condizioni non si ha voglia di uccidere: si vuole vivere a pieno la propria nuova vita”

“Ho capito. Ma noi ora che facciamo?”

“Cerchiamo di sapere dov’è il Ragno. Sperando bene…”

 

 

 

 

 

l Ragno, dopo il liceo, aveva fatto lettere da pendolare, con risultati medi e abbastanza velocemente. Aveva lasciato il militare a dopo l’università . In questa occasione aveva conosciuto un tipo diplomato a un professionale per derelitti nella vox populi. Costui si era rivelata persona piena di interessi e privo di quegli strafalcioni che ormai viruleggiano ovunque; e privo di presunzione; e soprattutto, pur in modo dispettoso e a volte pungente, un vero amico sincero. Orfano di padre da molto giovane, passava la propria vita fra il volontariato sulle ambulanze e lavoretti occasionali, fra cui spiccava – quasi un lavoro fisso – il disegno tecnico per progetti di costruzioni navali, con le cui aziende suo zio aveva buoni contatti. Il Ragno lo aveva convinto a produrre bozzetti comici su loro idee e addirittura storielle a fumetti. Avevano avuto un certo successo sia on line che in cartacei di case editrici minori, ma senza mai sfondare. Erano però stati notati da una sorta di talent scout per la pubblicità, che aveva chiesto loro se volevano fornire qualche prova pagata per alcuni prodotti.

I due avevano passato una sera davanti a una boccia di Sangiovese al bar del loro amico a discutere se era un lavoro che ingannava il prossimo o no, e – se sì – se per questo era giusto rinunciare a un’occasione di sbarcare il lunario e sbizzarrirsi nei modi che divertivano di più. Non avevano trovato una risposta, e avevano concluso che era impossibile e presuntuoso trovarla, ma che era giusto avere discusso. Si erano ripromessi di non far mai una riga o un segno, di non tirar mai fuori un’idea che gli facesse schifo e soprattutto non fosse almeno un po’ divertente, e avevano accettato.

Le prime prove erano andate ok. La paga era buona. Dopo un anno che avevano la partita IVA erano diventati delle star nel giro. Ma non lo sapeva nessuno, fuorché le aziende che li contattavano. In questo modo avevano anche pubblicato senza gettar perle ai porci qualche graphic novel, che i lettori avevano acquistato e letto.

L’amico si era simpaticamente e felicemente sposato con una brava ragazza che dopo tre anni era diventata cattivella e lo aveva tradito. Ci aveva sorriso sopra con amarezza ma con saggezza, aumentando i contatti extra-lavorativi col Ragno e chiedendogli di presentargli amiche simpatiche, alle quali premetteva di essere persona onesta ma poco seria. E aveva scoperto che queste gli credevano, e che lui gli era particolarmente simpatico.

Non che fossero ricchi, ma stavano bene, e potevano permettersi non frequenti ma belle vacanze anche all’estero. A volte assieme. A volte separatamente. Come l’ultima per il Ragno.

Viglietti entra nello studio di Riccardo con un’aria strana e gli porge un fax di discreta lunghezza, corredato di referti e foto.

Il Ragno risulta morto da qualche giorno: si trovava in un albergo di Cuba in vacanza. Secondo le brevi indagini della polizia locale, il decesso è stato causato dalla puntura di un ragno di specie velenosa, e la cosa non è risultata strana a nessuno. La salma sta rientrando in questi giorni.

Riccardo immobile batte un pugno sul tavolo; poi dice a Viglietti che lo guarda interrogativo e costernato scusami, lasciami un quarto d’ora solo. Viglietti ubbidisce.

Trascorso il quarto d’ora Riccardo impugna il telefono

“Buonasera signora, mi scusi. So che avevamo promesso di non disturbarla più, ma lei è stata così gentile da lasciarci un recapito telefonico ugualmente…”

“… …”

“Ecco, è che a volte il commissario lo faccio proprio male; poi però me ne accorgo. E’ solo una domanda banale, bastano pochi secondi”

“… … …”

“Secondo lei, magari in un momento particolare e per ragioni molto gravi, il suo ex marito sarebbe stato capace di uccidere?” dall’altro capo dell’etere la risposta arriva abbastanza veloce

“Lo escluderei nella maniera più assoluta”.

 

 

 

Prima o poi viene il momento di cedere. Di cedere sulle proprie convinzioni riconoscendo che erano solo convinzioni, che con la realtà avevano molto poco, anche se non proprio niente, a che fare. E se lo si fa senza costrizione, senza violenza, senza rinnegare se stessi e la propria fede, questo è il momento della ragione. Del ritrovare anche un po’, però, il proprio habitat, il proprio territorio.

Alberto ha ceduto all’evidenza del libro: è ormai chiaro che la chiave di ciò che malauguratamente ha già ucciso quattro persone – persone nelle loro differenze così rispettabili, perché recitavano con onestà e sincerità la propria parte da sempre – è quel libro; quel libro che lui si è sempre rifiutato di leggere; di possedere. Perfino di nominare e toccare. Nemmeno ne ricorda il titolo preciso. Se lo avesse avuto! Se fin dallo sgozzamento del Mutri lo avesse ricercato, ricordato….

Ma Alberto ha ceduto anche sull’illusione di fare l’investigatore a fianco dell’amico commissario: non è il suo mestiere, e nemmeno la gravità dei fatti lo ammette… anzi! Torna il distributore di caramelle; il saggio posato compagno di Marta. Dedicherà ogni giornata pochi minuti, alle stesse ore, per pensare un poco (forse ancora qualcosa gli sfugge) e se troverà qualcosa, lo comunicherà a Riccardo, tutto qua.

Riccardo ha ceduto sul separare l’indagine professionale, il dovere di trovare quello che ormai qualsiasi organo di comunicazione non esita a definire un serial killer, da quella storia strana – del libro appunto –  in cui la vecchia coppia è incappata come un tuffo nel passato, col fascino illusorio di tornare giovani, di rivivere sensazioni che sul momento reale non si erano capite tutte, e ora da adulti si gustano fino in fondo. Esiste un’unica realtà, e questa si chiama caso da risolvere. La nostra vita, la nostra giornata, è il risveglio al mattino, il caffè, la persona amata da proteggere, i piatti da lavare, un po’ di sonno da recuperare. Il resto è sempre, per tutti, caso da risolvere. E per lui è anche il proprio mestiere e dovere.

Il gruppo è riunito al completo nel cubo trasparente del suo ufficio: Giovannone in piedi, in disparte, col piede appoggiato all’indietro alla parete, come Tex Willer; Marco Rossi in piedi pure, le mani in tasca, che ascolta e pare pensare per proprio conto, passeggiando ogni tanto fra la scrivania del commissario e Giovannone stesso. Viglietti seduto davanti al Borachia, le dita delle mani incrociate in bellavista, con uno sguardo interrogativo e anche un po’ solidale. La Rossa-Fazio nella sedia accanto, la schiena dritta e il muso da volpe in campana, mentre la Laura, come una madrina alla cresima, le sta in piedi alle spalle, che si trattiene a stento dal cingere.

“Vi ho spiegato tutto: quello che so, quello che penso, quello che non capisco”

“Che facciamo?” fa Viglietti

“innanzitutto quel libro: un numero nel titolo, una prima pagina che probabilmente si apre davanti a un liceo in entrata. L’autore: Pietro Gigliòl. Non mancare nessuna occasione per cercarlo, in qualsiasi modo” tutti tacciono

“Poi” prosegue il commissario “la casa di qua: non possiamo entrare in un appartamento dicendo al giudice che il sospettato, peraltro già morto, abitava lì e ci ha spiegato in un libro introvabile suggerito da un mio compagno di scuola come avrebbe fatto a uccidere quattro persone dopo essere passato nel mondo dei più. Però ci saranno informazioni da prendere, vicini di casa, luce e gas più o meno pagati o no: e da chi? e così via…”

“Sì, certo… e poi?” azzarda la Laura. Borachia la fissa un poco, quindi passa lo sguardo sugli altri, come a dire non sono quel capo geniale e affidabile che vi aspettate.

“E poi non so”

“Va bene, stia tranquillo: ci divideremo i compiti, faremo il possibile e anche di più” chiosa Viglietti. Sembrerebbe il segnale per congedarsi, tanto che la Fazio fa per alzarsi

“Se mi permettete…” tutte le teste si dirigono di scatto verso Marco Rossi. Lui sta al centro della stanza, le mani in tasca, le sopracciglia scettiche inarcate, il labbro chiuso con la parte destra inferiore spinta in avanti”

“Beh?”

“Beh…mi scusi, sa: ma – diciamo così – quanti compagni di scuola vi sono avanzati? ” tutti tacciono, ma sono più attenti di prima

“escluso chi non c’è più, e poi me e Alberto, una dozzina” risponde Borachia

“E potrebbe farmi una lista precisa?”

“Penso di sì: e comunque la puoi trovare negli archivi del liceo. Però chissà dove sono, e soprattutto non erano molto legati al nostro gruppo: non credo che dopo il diploma…”

“Mi lasci provare: da estraneo non coinvolto: non costa niente…”

“Va bene” fa Riccardo annuendo lentamente

 

 

E’ arrivata anche la domenica. E con questa la promessa ottenuta da Gloria settimane prima. Peraltro non estorta, né sgradita, a Riccardo: rinunciare a un po’ di sonno, a un po’ di tranquillità insieme, e andare. Andare in un’unica giornata leggermente più in là, altrove.

Sono quelle cose che nessuno dei due ama particolarmente in sé: ci sono le radio locali, le tv e le radio nazionali, le interviste; la gente che fa coda o addirittura paga per sedersi da qualche parte e dirsi così intellettuale (dire che bravino, che interessante quello lì… ); le interviste ai maitres (a penser), gli studenti prezzolati per il buon nome della scuola che salgono sul palco con sicumera e poi vengono ridicolizzati quando non terrorizzati (ma perché mai?) dal giornalista bibliofilo. Il bicchiere di vino ruffiano offerto alla fine dell’ evento. Tutte cose non malvagie. Ma un po’ cattive sì…

Però ce ne sono anche belle e buone o comunque sincere: divertenti recite di voci allenate che rappresentano discussioni fra autori degli ultimi due secoli. Divertenti; a volte commoventi o perfino istruttive.

Comunque, soprattutto ci sono dei libri. Normali libri. Tanti: in bancarelle di roba usata fra i giardini; in palazzi di antichi duchi ora aperti a noi. In nuove costruzioni create da progettisti nati dalla testa di Zeus e rinati col portafoglio dello stato.

E a Gloria i libri piacevano e piacciono. Tanto. E a Riccardo – dopo la doverosa precisazione che devono pagare pegno allo gnocco (fritto o no), ai ciccioli, alle tigelle, all’ennesima e mai risolta gara archeologica fra cappelletto raviolo e tortellino, al vino non necessariamente per forza quello. Al sorriso un po’ disteso sollevato sereno della propria donna – non dispiaciono affatto.

Si tratta di 100 quasi in su e circa 50 diritti, a Est. Bolidi rossi ostentati in teche di vetro. Camminare fra uova indistruttibili alzando gli occhi al grosso orologio tondo, o in spazi immensi convergenti al marmo bianco fino al pinnacolo appuntito, o in cavedi di proporzioni perfette, inimmaginabili. Per non parlare di quei glutei così spontanei e al tempo stesso eleganti di lei che abbraccia la divinità scura, e di quei Bimbi che giocano sulle ginocchia della Madre, di quel manto rosso tra il sangue e la follia fiamminga. Dei colori inimitabili di quel tipo strano, umile ma sicuro delle proprie capacità, col piccolo occhio malato fin da bambino e il talento inspiegabile vissuto con naturalezza…

Scendendo dall’auto Riccardo cerca di sospendere, quasi dimenticare tutta la faccenda in corso; sorride a Gloria  che lo ricambia un po’ incerta. Si avviano prendendo una delle due strade spartite dal bastione di un palazzo a portici su entrambe: la zona pedonale ha permesso per l’occasione un prologo fatto di bancarelle su cui sostano centinaia di libri: lucidati, incolonnati, sudici, ammassati in disordine, venduti, rincarati, svenduti…; lui stringe forte il cellulare nella tasca del giubbotto quasi a zittirlo per tutta la giornata appena all’inizio.

Sente nel palmo la vibrazione.

“Dimmi Marco”

“La disturbo commissario? è domenica…”

“Dimmi”

“Lei la conosce Franca Benarrivo?”

“Chi?!?”

“Non la conosce…”

“Eh?… Ah! sì, sì, mi ricordo. Ma che cosa c’entra? E’ più piccola di noi: la si vedeva ogni tanto, per caso… Non eravamo compagni di scuola” Riccardo cerca nella memoria (contemporaneamente concentrandosi per raggiungere uno sguardo noncurante di scusa e rassicurazione rivolto a Gloria) una ragazzina con una nuvoletta di capelli crespi e lo sguardo scuro e dolce

“Me ne ha parlato Patrizia Chiori: questa se la ricorda?”

“Certo: questa sì” (una bionda naturale, dai jeans robusti. Sincera ma fin troppo sicura di sé)

“Beh: sostiene che l’altra avesse il romanzo; e che per un certo tempo, sembrerebbe brevissimo, frequentasse – diciamo così – l’autore”

“Ah…”

“Io l’ho trovata. Il libro s’intitola: …e quattro…!

“Ah! Andiamo bene!”

“Non ce l’ha più: ma il suo racconto dell’inizio corrisponde”

“Dell’inizio?”

“Sì: dice che si era stufata e aveva smesso di leggerlo. Più o meno in contemporanea… ha capito?”

“Sì ho capito. E dove lo ha messo?”

“Dice che quando ha preso casa da sola ha fatto scatoloni di libri che non voleva tenere e li ha regalati alla bancarella qui da noi: sa quella davanti alla chiesa, sempre aperta?”

“Sì. E allora?”

“E allora ci sono stato e l’ho squinternata,e ho squinternato l’omino di domande: il libro non c’è. Lui un po’ se lo ricorda. Ma non se lo ha venduto né a chi”

“Un buco nell’acqua?”

“Beh… forse era in scatoloni che ogni tanto fa anche lui e scambia e contratta con altri bancarellari, anche di fuori, i suoi colleghi preferiti stanno a ….., a …… e a …….. . Dice però che gli sembra che sulla copertina – e il nome dell’autore corrisponderebbe – ci sarebbe una boccetta con un liquido nero dentro. E… ma è sempre in linea??? mi sente??? Commissario????”

“Sì, sì, scusa: hai fatto un ottimo lavoro! Ti richiamo tra pochi minuti: riattacchiamo.E sta’ lì, sta’ pronto!”

Il commissario avanza lentamente, poi fulmineamente, come preso da un raptus, verso la bancarella. Un misero angolino porta il nome proprio: allunga la mano, sposta qualche sudicio libro con le dita: compare tutto il nome , la boccetta, il titolo

“Quanto costa?”

“Guardi… sarebbero a metà prezzo; però sa… questo…”

“Lo compro comunque: quanto vuole?”

“Sarebbero dieci euro…”

Riccardo paga sotto lo sguardo stupìto del gestore.

Si volta verso Gloria con aria costernata e implorante.

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