LA REDAZIONE
Scrivici
PUBBLICITÀ
Richiedi contatto
Spezia nei giorni della marcia su roma (seconda parte)

Un colpo di stato preparato da tempo. Spezia nei giorni della marcia su Roma (seconda parte)

La marcia su Roma non fu un “bluff”, un evento folcloristico da minimizzare in sede storiografica e politica, ma un colpo di Stato che determinò il vero inizio della dittatura fascista. Il colpo di Stato non fu un fulmine a ciel sereno, ma un “golpe” strisciante, dispiegato per molti mesi in una lunga e continua azione violenta e sopraffattrice, via via accettata da una cultura autoritaria sempre più condivisa. Le premesse furono già poste nell’immediato dopoguerra, quando negli ambienti nazionalisti e militari si iniziò a ipotizzare progetti di colpo di Stato per rovesciare il sistema parlamentare e impedire l’avanzata del movimento operaio. La storia di Spezia è davvero emblematica: una larvata dittatura militare fu anticipata proprio nella nostra città, piazzaforte militare, già durante la Grande Guerra, quando il Consiglio Comunale fu sciolto per tre anni e il comandante in capo della Marina ebbe tutti i poteri. La regia fu di quelle stesse forze, legate a gran parte della borghesia industriale e commerciale e della Marina, che sostennero poi la nascita del fascismo: un’alleanza tra l’industria legata alle produzioni belliche e le gerarchie militari che costituisce l’elemento di fondo per capire le vicende successive. Il suo deus ex machina fu Domenico Giachino, già sindaco ed esponente del blocco liberale.

L’unione dei reazionari si realizzò attorno al quotidiano “Il Tirreno”, il cui primo numero uscì il 10 novembre 1919. Documenti ritrovati da Fidia Sassano, militante socialista e archivista del Muggiano, resi noti durante
l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920, portarono alla luce la verità: Giachino aveva preso l’iniziativa di portare “Il Tirreno” a Spezia, ottenendo il finanziamento dei proprietari delle industrie Ansaldo e Cerpelli. Il commento del giornale alla scoperta fu un’ammissione: cosa c’è di scandaloso nel fatto che la borghesia paghi di tasca propria per difendersi? Ancora: il corrispondente spezzino del “Secolo XIX” riscuoteva dall’Ansaldo un supplemento vitto di 100 lire mensili. Nello stesso periodo i proprietari dell’Ansaldo finanziavano “Il popolo d’Italia”, il giornale fondato da Mussolini. “Il Tirreno”, in un editoriale del 13 aprile 1920, invocò apertamente la dittatura militare: “Ed ecco lanciata la grande parola. Un generale! È la dittatura militare. […] A mali estremi, rimedi estremi. Oggi ogni dottrina, ogni ragione di parte cessa davanti alla necessità della salvezza comune”.
Il 13 maggio 1920 si ricostituì il Fascio, i cui massimi dirigenti erano esponenti della borghesia, della Marina, dell’Esercito. Il connubio era sempre più evidente. Da allora fu un crescendo continuo della violenza squadrista: uccisioni, aggressioni, assalti e distruzioni di sedi politiche, sindacali, istituzionali. Senza che tutto ciò provocasse normali interventi di ordine pubblico o reazioni straordinarie da parte dello Stato. La grandissima parte della classe dirigente liberale fu passiva o complice. In essa prevalse la tesi di Giovanni Giolitti: “Non si può dimenticare che il fascismo esiste”. Ma in questo modo la lotta politica non era più su un piano di parità, perché si legittimava il fascismo che esisteva come partito armato violento, a differenza di ogni altro: le regole base dello Stato liberale venivano palesemente negate. La scelta di Mussolini di organizzare la marcia fu figlia anche della constatazione che più la furia squadrista avanzava più lo Stato -prefetti, questori, magistrati- arretrava.

1921. AVANZA LO SQUADRISMO, ARRETRA LO STATO. L’ECCEZIONE DI SARZANA
Una rassegna dei fatti più gravi avvenuti a Spezia è ancora una volta emblematica. Consideriamo intanto i primi mesi del 1921: il 27 febbraio i fascisti assaltarono la Camera del Lavoro, le guardie regie intervennero a loro favore e il giorno dopo, in occasione dello sciopero generale, uccisero l’anarchico Adolfo Olivieri; il 27 marzo i carabinieri uccisero l’anarchico Dante Carnesecchi; l’11 maggio fu devastata la sezione comunista di San Terenzo (Lerici) ad opera, secondo il giornale comunista “Bandiera Rossa”, dei carabinieri; l’11 e il 12 maggio furono assaltate dai fascisti prima la Camera del Lavoro sindacalista (facente capo all’USI, Unione Sindacale Italiana), poi la Camera del Lavoro confederale: in entrambi i casi la forza pubblica lasciò fare; il 16 maggio un corteo di giovani comunisti e socialisti, formatosi spontaneamente dopo il risultato delle elezioni politiche del 15 maggio, fu vittima di una
provocazione fascista, in seguito alla quale i carabinieri uccisero cinque giovani (i “fatti di via Torino”). Un fatto nuovo, in controtendenza a questo andazzo ma rimasto isolato, si verificò a Sarzana il 21 luglio 1921, quando i fascisti toscani mossero alla “conquista” della città. Le autorità di Massa, nella notte tra il 20 e il 21 luglio, non fermarono la spedizione. Lo fecero invece, alla Stazione di Sarzana, i carabinieri al comando del capitano Guido Jurgens, e poi i contadini e gli operai uniti nel Comitato di difesa proletaria. I “fatti di Sarzana” dimostrano che il fascismo non era una forza inarrestabile. Non solo perché senza l’appoggio delle strutture dello Stato lo squadrismo non avrebbe potuto affermarsi, ma anche perché la strada dell’unità antifascista avrebbe potuto rappresentare una difesa efficace dalla violenza fascista. Il Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi inviò a Sarzana l’ispettore generale Vincenzo Trani, che nel suo rapporto finale del 4 agosto 1921 fece una constatazione esatta: lo Stato liberale generalmente si schierava con i fascisti. Lo fece anche rimuovendo lo stesso Trani, come egli stesso aveva capito sempre nel rapporto del 4 agosto: “Quando il Prefetto di Massa mi annunziò che il Ministero aveva deciso di inviare il Viceprefetto di Genova nella zona turbata, e da me da dodici giorni ridotta al rispetto dell’ordine, per farvi opera di pacificazione, non potei fare a meno di riconoscere nel cambiamento del Ministero un cambiamento di direttive pro-movimento fascista”. La sostituzione di Trani fu la fine di ogni illusione. La costituzione, il 9 novembre 1921, del Partito Nazionale Fascista, un partito organizzato sulla base di squadre armate, fece definitivamente fallire il tentativo del “patto di pacificazione” tra fascisti e socialisti, che era stato siglato il 3 agosto 1921. Poco dopo, nel dicembre, Jurgens fu costretto ad abbandonare Spezia. Lo stesso Umberto Banchelli, squadrista di Firenze, il capo di stato maggiore della spedizione giunta a Sarzana, riconobbe, nelle sue “Memorie di un fascista” del 1922, che “il fascismo non ha potuto svilupparsi che grazie all’appoggio degli ufficiali, dei carabinieri e dell’esercito: i dieci fucili hanno messo in fuga cinquecento fascisti non solo perché hanno sparato, ma perché, sparando, hanno messo una volta tanto fuorilegge gli squadristi, sbalorditi di trovarsi bruscamente dall’altra parte della barricata”.

1922. LA CAPITOLAZIONE DELLO STATO
Alla Serra di Lerici, il 15 febbraio, le forze dell’ordine si guardarono bene dall’intervenire per bloccare la spedizione fascista, limitandosi a farle mutare il percorso. Il 19 febbraio fu ucciso, a Spezia, il fascista Francesco Podestà: un episodio oscuro, per il quale furono arrestati e condannati, senza la minima prova, numerosi noti “sovversivi”. La capitolazione dello Stato proseguì senza sosta. Al fallimento dello “sciopero legalitario” di agosto seguirono numerosi arresti dei dirigenti sindacali e, per qualche giorno, la sostituzione delle autorità civili con quelle militari. Vi furono poi, a Ferragosto, l’occupazione fascista del Comune di Santo Stefano Magra, le dimissioni forzate dei Consiglieri comunali e la consegna del Comune ai carabinieri, e, a settembre, l’arresto dell’anarchico Pasquale Binazzi e la chiusura del giornale “Il Libertario”. La violenza era antioperaia e anti-istituzionale, e colpiva la libertà di stampa. La capitolazione ebbe il suo epilogo con la marcia su Roma. Il governo Facta scrisse inutili circolari a prefetti e questori perché difendessero la libertà. Ma fu una sorta di disarmo unilaterale.

LA BORGHESIA CON IL FASCISMO
Al sostegno delle gerarchie militari al fascismo si aggiunse, e spesso si intrecciò, quello della borghesia industriale e commerciale, che fu continuo, fin dall’inizio. Figure come Guido Bosero ed Elvidio Zancani, alla Spezia, ne furono il simbolo. Fu così dappertutto in provincia: a Sarzana il nucleo del PNF sorse dall’Associazione nazionale di rinnovamento, che radunava, sotto la guida dell’avvocato Paolo Bedini, la parte più reazionaria della borghesia. A Lerici il capo dei fascisti era il cittadino più facoltoso: l’ingegner Giovan Battista Bibolini, armatore, che fu deputato dal 1934 al 1943, quindi senatore, nonché presidente della provincia dal 1932 al 1935. A San Terenzo i capi erano Giulio Mantegazza, il “signore” del paese, e gli imprenditori Remigio Azzarini e Michele Piazza. Dal gennaio all’ottobre 1922 arrivarono al fascismo spezzino 47.300 lire, di cui oltre 30.000 provenienti da società. Il ministro Taddei telegrafò a settembre ai prefetti perché si adoperassero verso gli imprenditori per non continuare a finanziare i fascisti. Dalla risposta del prefetto di Genova (da cui Spezia dipendeva) apprendiamo che “in alcuni industriali e commercianti non [erano] ancora sbolliti certi entusiasmi fallaci”, mentre altri contribuivano “più per paura che per convinzione”.

LA CONQUISTA DEI COMUNI. IL SINDACO EZIO PONTREMOLI, DA LIBERALE A FASCISTA
Anche le istituzioni locali furono svuotate. Con gli assalti ai Municipi – il primo a Bologna il 21 novembre 1920 – e con la sostituzione dei vecchi amministratori locali, costretti alle dimissioni con la violenza, ma anche grazie al cedimento degli amministratori liberali. Un esempio indiretto venne dal sindaco di Lerici, non fascista, dopo il tragico scoppio al forte militare di Falconara, che aveva provocato una strage nella popolazione civile. Alle operazioni di soccorso parteciparono, insieme alla forza pubblica, squadre fasciste di Spezia, di Sarzana e di Carrara: il sindaco inviò un telegramma di ringraziamento non a Facta, capo del governo, ma invece al “Capo del Fascismo”. Un altro esempio molto più diretto venne, nei giorni successivi alla marcia su Roma, dal sindaco della Spezia Ezio Pontremoli. L’Amministrazione fu messa in crisi da sei consiglieri comunali nazionalisti e combattenti che rassegnarono le dimissioni per protesta contro “la fredda indifferenza passiva” dell’Amministrazione, che non si era resa conto “del profondissimo rinnovamento che si è operato nella coscienza pubblica italiana in questi ultimi tempi, tanto che nessun segno di adesione è pervenuto dall’Amministrazione Comunale, se non a vittoria conseguita”. Il sindaco e la giunta rassegnarono le dimissioni. Il segretario politico del Fascio spezzino Augusto Bertozzi, d’intesa con il segretario provinciale Mario Miozzi, scrisse una lettera a Pontremoli auspicando che “nel più breve tempo” si ritirasse in buon ordine, perché l’amministrazione diventasse “espressione armonica della maggioranza dei cittadini”. Era una richiesta di un mezzo passo indietro: una sorta di “fiducia a tempo”. Ma la Segreteria centrale del Partito Fascista mandò all’aria ogni disegno del Fascio locale, inviando al sindaco un telegramma in cui era scritto: “informata incresciosa imposizione dimissioni codesta patriottica amministrazione mentre si propone di rivedere rigorosamente responsabilità propri dipendenti, fa appello nobile patriottismo V. S. perché, riconfermando tradizioni nobilissime sue famigliari, voglia ritirare insieme Consiglio dolorose dimissioni per il bene di codesta città”. Miozzi, risentitissimo, inviò un telegramma di protesta alla Direzione, accusata di essersi “prestata in buona
fede manovre loschi speculatori locali”. La crisi fu superata, i combattenti rientrarono in maggioranza, solo i nazionalisti passarono all’opposizione. La maggioranza chiese a Pontremoli di ritirare le dimissioni. Così “Il Tirreno”, nel resoconto della seduta del Consiglio Comunale del 30 dicembre, riportava le parole del sindaco: “Chiusa finalmente l’epoca che portava all’avvilimento dei valori morali e che si svolgeva senza idealismo, è seguita l’opera di restaurazione nazionale. […] È doveroso aprire il ciclo di questa nuova vita mandando un saluto al Capo dello Stato che è interprete dell’anima nazionale ed a Benito Mussolini che è stato artefice di questo rinnovamento”. Pontremoli si recò a Roma a rendere omaggio al capo del fascismo. L’episodio segna la tragica fine della classe dirigente liberale spezzina. La borghesia economica si schierò tutta con il fascismo, scontrandosi con lo squadrismo primigenio per la conquista del potere – e degli appalti legati all’industria militare. Negli anni successivi Bosero e Zancani, e poi anche Bertozzi, furono espulsi dal PNF. Bertozzi fu riammesso già dal 1929 e divenne uno dei capi del Partito Fascista Repubblicano quando fu costituita la Repubblica Sociale.

28 OTTOBRE 1922. IL CORTEO APERTO DALLA BANDA DELLA MARINA, CHE SUONO’ LA “MARCIA REALE” E “GIOVINEZZA”
Ma facciamo un passo indietro di qualche giorno e torniamo alla marcia su Roma. Quel giorno tra Stato liberale e regime fascista avvenne, come ho scritto nella prima parte di questo articolo, “un regolare ‘passaggio di consegne’”. Il racconto del settimanale spezzino “Il Popolo”, pubblicato il 4 novembre, è esemplare: “Gli ordini venivano di fuori: qui dunque non c’era altro da fare che eseguire: e quanto fu ordinato fu infatti attuato. Al primo posto furono dai fascisti occupati gli uffici postali e telegrafici e la locale stazione ferroviaria. […] Aumentava la confusione e l’incertezza nella opinione pubblica. Non così nelle file di azione. Gli ordini erano precisi: il programma si svolgeva secondo la linea tracciata. La cosa qui assumeva un particolar carattere di delicatezza poiché le due forze – la fascista e la militare – apparentemente in contrasto si contendevano il primato nel mantenimento dell’ordine pubblico e nel presidio degli uffici pubblici. Ma un tatto squisito fu adoperato e nessun incidente ne sorse, talché agli uffici postali e telegrafici ed alla stazione presidiavano marinai e fascisti in evidente accordo. Più tardi si delineò il carattere dell’azione. Alla nostra città affluivano i fascisti, i nazionalisti, i combattenti di tutto il circondario: si formavano i plotoni dei regolari, vestiti di tutto punto. Quindi degli ultimi venuti ad aggregarsi all’azione, di quelli che non erano ancora muniti di camicia d’ordinanza ed armati soltanto di bastone, unico distintivo nel loro abito borghese. Questi ultimi specialmente guidati da regolari fascisti, o nazionalisti, e da ufficiali in congedo dell’esercito. Questo fatto incominciava a lumeggiare il carattere dell’azione e confermava le notizie che giungevano di fuori: Mussolini marciava su Roma senza scontrarsi coll’Esercito e colla Marina. Tutto ormai si spiegava. E quando giunse la notizia della vittoria fascista nessuna esitanza poté più reggere. Mussolini era divenuto il nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri, Diaz, l’amm. Tahon di Revel erano rispettivamente Ministri della Guerra e della Marina. Quindi al tripudio delle schiere, diciamo così irregolari, potevano unirsi quelle regolari. E mentre la città all’annuncio di tale vittoria si andava da un capo all’altro imbandierando cortei trionfali percorrevano le vie al suono di inni eseguiti dalla banda della R. Marina. Era un osanna che partiva da diverse parti come da diverse parti si era contribuito alla vittoria. Ed ecco come una azione in così grande stile ha potuto compiersi senza che il minimo incidente ne venisse a turbare il rapidissimo svolgimento. Il corteo di martedì sera che chiuse il ciclo di tanti avvenimenti fu veramente magnifico, imponentissimo. Si ebbe in esso la rivista delle squadre fasciste e nazionaliste – che operarono sempre d’accordo – passata ad esse da S. E. il comandante in capo amm. Biscaretti. Presenziarono ad essa anche il Sottoprefetto e l’Amministrazione Comunale con gonfalone. La banda della R. Marina suonò la ‘Marcia Reale’ e quindi l’inno ‘Giovinezza’. Sfilano quindi dinnanzi alla autorità le varie milizie che partendo da Viale Mazzini attraversano Via Chiodo e Via Cavour recandosi a Piazza Brin ove formano un immenso quadrato. Quivi il console delle forze fasciste Bosero che comandò tutte le squadre d’azione rivolse loro l’encomio solenne e comunicò l’ordine di scioglimento. E le squadre rientrarono nelle loro sedi al canto dei loro inni. Ed in una serata al Politeama si ebbe pure l’apoteosi della vittoria celebrata con discorsi del Comandante in Capo, del segretario provinciale del fascio ing. Miozzi, del segretario politico Augusto Bertozzi e del sindaco rag. Pontremoli”. Mussolini diede vita, d’intesa con il Re, a un governo di coalizione, che comprendeva popolari, liberali, demosociali, nazionalisti e altri non fascisti. Ma i drammatici avvenimenti che si avranno subito dopo l’esordio del nuovo governo dimostreranno l’insopprimibile tendenza totalitaria del fascismo. Chi sosteneva che il fascismo sarebbe presto entrato nel sistema liberale non aveva compreso nulla. Nel “passaggio di consegne” la classe dirigente liberale consentì l’introduzione immediata di nuove forme di esercizio del potere. Pensava alla continuità, ma aprì a una brusca rottura con il passato.

28 OTTOBRE 1922. IL VERO INIZIO DELLA DITTATURA FASCISTA
“Il Popolo” del 4 novembre così concludeva il racconto del giorno della marcia a Spezia: “E la cronaca dovrebbe esser terminata. Senonché l’azione di gruppi di squadristi portò alla devastazione della Tipografia Sociale ove si stampava l’anarchico ‘Libertario’, e del Circolo Ferrovieri in via Genova. Fu strappato dal suo facile alloggiamento il busto di Francisco Ferrer in Piazza del Municipio e ridotto in frantumi. Qualche comunista fu ricercato e… purgato con olio di ricino o col manganello”. Ma i fascisti non si limitarono all’olio di ricino e al manganello. Nei successivi mesi del 2022, al Spezia, furono uccisi gli antifascisti Andrea Maineri, a Riomaggiore, Francesco Carmè, a Biassa, e Gerolamo Grancelli, a Framura. Il 21 gennaio 1923 alcuni Arditi del popolo tesero un agguato mortale al più feroce capo squadrista, Giovanni Lubrano. Fu compiuta una furiosa rappresaglia verso persone innocenti: nel giro di poche notti i fascisti trucidarono 19 antifascisti estranei ai fatti. La marcia su Roma fu dunque il vero inizio della dittatura fascista. Come ha scritto Giulia Albanese “un sistema istituzionale può essere trasformato senza che ciò sia chiaramente compreso da chi assiste alle trasformazioni”. Oggi possiamo sostenere che il governo fascista sancì la fine dello Stato liberale già nel corso del primo anno di attività, e nonostante il suo carattere di governo di coalizione. La sanzione statale e la connivenza dei liberali non salvò né lo Stato né i liberali ma segnò l’avvento di una nuova era contrassegnata dallo squadrismo. Lo squadrismo non finì con la marcia su Roma: Mussolini lo portò nella milizia e nei sindacati, smantellò lo Stato liberale e lo invase con le squadre. Lo squadrismo continuò a vivere nelle spedizioni coloniali in Africa, nella partecipazione fascista alla guerra di Spagna, nelle brigate
nere contro i partigiani.

Giorgio Pagano

Più informazioni