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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Ancora su Sia Cè

Occhi azzurri

Celide aveva novantadue anni, era diventata una vecchina deliziosa, di aspetto, perché il carattere gli era rimasto sempre quello. Risoluto, altero e caparbio, e voleva sempre aver ragione. Ci volevamo bene, tanto, ma rischiavamo spesso di litigare, e non poche volte lo avevamo fatto quand’era più giovane, perché pensava di consigliarmi su tutto. E vinceva sempre lei, perché un po’ per il rispetto che le portavo un po’ perché m’intimoriva, ero sempre io che alla fine cedevo. Per qualche giorno però non le parlavo, fino a quando con una scusa veniva lei a cercarmi. Da quando era morta Adele, sua sorella, mia suocera, era diventata più presente nella mia vita. Fin dal primo giorno che ero venuta a stare nel paese mi aveva dimostrato, a modo suo, una sorta di affetto, di… complicità, per la mia scelta, diciamo, coraggiosa di vivere con Angelo senza poterci sposare. Ma aveva preferito, lo capii dopo, stare in disparte.

Avevo i miei suoceri, e lei, lo sapeva molto bene, aveva una personalità ingombrante. Ma quando c’era stato bisogno non ci aveva pensato un secondo a prendere i bambini in casa sua, con Bepino, suo fratello; e Meri restò a dormire da lei finché non se andò a studiare a Bologna. E quando ero incinta di Giosuè, con tutta quella neve, fece tutto lei. Praticamente portò su a spintoni la levatrice. Che scena buffa dev’essere stata, ogni volta che me la raccontava ridevamo un sacco. Le piaceva molto ridere, soprattutto avanzando con gli anni. Amava ricordare le cose più divertenti della sua vita e me le raccontava. Aveva uno stupendo senso dell’ironia. Più di una volta mi era successo, quand’era già molto vecchia e andavo a portarle la spesa o a farle qualche faccenda – in uno di quei periodi che a volte capitano in questo golfo che non a caso chiamano “il pisciatoio d’Italia” perché quando comincia a piovere va avanti per giorni e giorni –, di trovarla affacciata alla finestra della cucina, che con la sua bella voce cantava al diluvio e al mondo: «Oh Dio c’è tanta polvere, perché non piove un po’?». Poi si voltava, mi vedeva, e rideva di gusto con quegli occhi sempre lucidi e svegli e azzurri come il cielo di aprile di tutti i Failli. Che poi ho scoperto, sentendola alla radio, anni dopo che era morta, che quella era una strofa di una canzone milanese che chissà come lei sapeva. Da qualche anno aveva bisogno di una mano e, anche prima che Amerigo se ne andasse, quasi tutti i giorni salivo da lei a vedere come stava o se aveva bisogno di qualcosa. Di salute stava benissimo, non ricordo che abbia mai preso un raffreddore o che abbia fatto delle analisi. Io la vedevo come un olivo, di quelli belli, secolari, che danno l’idea che ci saranno per sempre.

Era ormai completamente sorda, e anch’io non scherzavo ché ancora non m’ero messa l’apparecchio. Era una bella lotta! Ma ormai ci capivamo al volo, e quando proprio non capiva qualche parola le urlavo nell’orecchia destra. Si scordava le cose però, un paio di volte il rubinetto aperto, una volta il gas, e i condomini, benché le volessero bene, erano giustamente preoccupati. Per questo, da quando era rimasta sola, ogni giorno, dopo le mie ore di lavoro, passavo da lei e ogni tanto le portavo anche da mangiare, più raramente l’aiutavo a pulire casa e a lavare i panni, ché era sempre precisa e pulita. Gli ultimi anni la mettevo a letto, controllavo tutto e poi la lasciavo, che non voleva restassi lì “di guardia” e poi, mi diceva, avevo da badare a
Giosuè. Aveva sempre avuto una innata eleganza e uno straordinario gusto, in tutto. Creava i più bei vasi di fiori che abbia mai visto, ma sbaglio a dire “fiori”, perché usava anche ramoscelli, foglie verdi, frasche secche…

In vecchiaia, quando le veniva l’ispirazione, partiva da casa con le forbici ed entrava anche nei giardini privati per prendersi un tralcio o dei boccioli che la attiravano. E se i proprietari le dicevano, o meglio, le facevano capire, che non poteva farlo, che era violazione di domicilio, lei, pacifica e serafica rispondeva che erano più di ottant’anni che raccoglieva i fiori per tutto il paese e non avrebbe certo smesso per un cancelletto chiuso male. A volte entrando in casa sua sentivo nell’aria uno strano odore, erano le ghiande. Mi aveva spiegato che ogni tanto la prendeva come una necessità di andare a raccoglierle e lessarle e mangiarle, per non scordare il tempo della fame, della guerra, ché adesso c’era di tutto nei negozi, e si buttava via la roba senza nessuna vergogna, ma che sicuramente c’erano in giro per il mondo guerre e gente povera che avrebbe pregato e pianto e fatto festa con i nostri avanzi, come avrebbe fatto lei e anche molti altri, e mica tanto tempo fa…

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