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Storia di “Enrico”, l’ultimo disertore tedesco

Erich Heinrich Rahe se ne è andato a 97 anni. Era l’ultimo disertore tedesco combattente nella Resistenza italiana ancora in vita. Nel 1942, a diciassette anni, “Enrico” era entrato entusiasta nelle SS, pieno di zelo militaresco e di odio verso i bolscevichi. Nel 1943 vide gli ebrei caricati sui carri bestiame per i campi di concentramento, nel 1944 vide i nazisti uccidere nei rastrellamenti le donne e i bambini. Tutto ciò gli fece male, lo fece riflettere e lo convinse a disertare e a combattere i nazisti insieme ai partigiani.

La tessera di partigiano di "Enrico" Rahe (archivio famiglia Rahe)

Erich Heinrich Rahe se ne è andato a 97 anni. Era l’ultimo disertore tedesco combattente nella Resistenza italiana ancora in vita. Conosceva bene la nostra lingua, non solo per aver fatto il partigiano in Val di Vara e nello Zerasco, nella Brigata “Gramsci”, ma anche per aver sposato, all’indomani della Liberazione, un’italiana. Il suo nome di battaglia era “Enrico”, traduzione di entrambi i suoi nomi di battesimo. Nelle nostre conversazioni telefoniche parlava in italiano, inserendo qualche parola spagnola -risiedeva da anni a Calp, in Costa Blanca- e qualche parola tedesca.

Nel 1942, a diciassette anni, “Enrico” era entrato entusiasta nelle SS, pieno di zelo militaresco e di odio verso i bolscevichi. Nel 1943 vide gli ebrei caricati sui carri bestiame per i campi di concentramento, nel 1944 vide i nazisti uccidere nei rastrellamenti le donne e i bambini. Tutto ciò gli fece male, lo fece riflettere e lo convinse a disertare e a combattere i nazisti insieme ai partigiani. Nell’ottobre 1944 andò ai monti grazie all’aiuto della famiglia Raso, che lo nascose sul monte Bardellone, sopra Levanto. Da lì salì ad Adelano di Zeri. Con lui c’era un altro disertore, Leonhard Wenger: aveva combattuto contro Franco nella guerra di Spagna e lo addestrò. Leonhard, mi ha raccontato “Enrico”, nel gennaio 1945 cercò di passare il fronte sulle Apuane, ma una bomba che era a terra esplose, lui morì sul colpo.

Erano “due ragazzi veramente in gamba, molto esperti nell’uso delle armi”, ha raccontato il partigiano levantese del Battaglione “Maccione” della “Gramsci” Mauro Del Bene. “Enrico” ricordava sempre la sua prima arma, una pistola mitragliatrice arrivata dal cielo con un lancio alleato, e tanta fame, tanta polenta. E naturalmente le azioni di cui fu protagonista.

Nel novembre 1944 fu tra i partigiani che tentarono di rapinare la Banca d’Italia a Spezia -dove lavorava un collaboratore della Resistenza- sotto la guida di Primo Battistini “Tullio”, partigiano della Brigata “Muccini”. “Enrico” indossava un’uniforme della Wehrmacht per non dare nell’occhio, ma l’operazione fu interrotta perché stava per cominciare il rastrellamento del 29 novembre. In quell’occasione c’erano altri due disertori, che combattevano con “Tullio”: Mario, capitano austriaco, ed Enrico, tenente tedesco.

Un altro partigiano levantese, Giuseppe Eugenio (Lino) Queirolo del Battaglione Matteotti-Picelli della “Gramsci”, così ha testimoniato sull’ultima battaglia, quella di San Benedetto del 24 aprile 1945, prima che i partigiani scendessero a liberare Spezia: “In cima al campanile si erano asserragliati tre tedeschi. Io, Paolo De Filippi e un tedesco disertore di nome Enrico andammo a toglierli di mezzo. Li catturammo e il giorno dopo furono consegnati alla Questura di Spezia”.
A proposito: Queirolo le prime armi le prese a due tedeschi a Monterosso, perché un loro commilitone gli aveva detto come fare a portargliele via. Insomma, i “bravi tedeschi” non mancarono. La diserzione fu un fenomeno assai meno limitato di quanto si pensi, come ho spiegato nel saggio “Quei disertori del Reich nel Vento del Nord”, pubblicato su patriaindipendente.it. I disertori tedeschi in IV Zona furono, secondo le mie ricerche, oltre quaranta, in Italia 2-3 mila, sostiene lo storico Carlo Greppi. In Europa vi furono ben 15 mila esecuzioni di disertori tedeschi: un numero impressionante.

La Spezia, primi anni Settanta, da sinistra:Giorgio Giuffredi,

 

Nella “Gramsci”, Rahe e Wenger non furono gli unici disertori tedeschi. Sappiamo della morte, l’11 novembre 1944 nel rastrellamento a Cornice di Sesta Godano, di Hans, ufficiale delle SS e disertore. Ricorriamo ancora ai ricordi di Mauro Del Bene: “Il rapporto [con i disertori tedeschi] era amichevole, fraterno, ci si aiutava uno con l’altro. Ad esempio quando c’è stato l’11 novembre, l’attacco a Cornice che anche lì abbiamo lasciato tre o quattro partigiani morti, lì ci ha salvato un tedesco, che era uno… un ex ufficiale tedesco e che ci ha insegnato come sfuggire all’accerchiamento, che noi eravamo… insomma io di questioni militari non ero pratico, ero stato imbarcato sulle navi civili, non conoscevo nulla. Infatti ci ha detto: ‘Buttiamo bombe a mano, loro si sdraiano, mentre sono sdraiati noi passiamo’ e in effetti siamo riusciti poi a scapolare il rastrellamento”. Hans li salvò, ma lui non riuscì a salvarsi.

Come Leonhard Wenger. Come Rudolf Jacobs, ucciso il 3 novembre 1944 in un attacco alla sede delle Brigate Nere di Sarzana condotto dalla “Muccini”. Non solo: è emblematico che uno dei primi caduti della Resistenza spezzina, il 26 marzo 1944, fu un altro Hans, di Colonia, della banda di Piero Borrotzu; e che uno dei nostri ultimi caduti fu il ventiduenne austriaco Josef Bauer della Brigata “Borrini”, ucciso nella battaglia di Licciana Nardi il 23 aprile 1945. Sto cercando il certificato di nascita di Bauer nel suo Comune natio, molto probabilmente Graz, per poi rivolgermi al Bundesarchiv di Berlino e cercare di ricostruire la storia della sua giovane vita.

La resistenza al nazifascismo fu davvero universale, internazionale, transnazionale. Uomini di contrade e a volte pure di razze diverse scoprirono i tratti comuni dell’umanità in lotta contro le barbarie. Come fecero i contadini italiani che accolsero e nascosero, a prezzo della loro vita, gli ex prigionieri alleati sfuggiti ai nazisti. Molti di questi prigionieri rinunciarono a passare le linee e a recarsi nel Sud, per rimanere a combattere tra quei contadini che li avevano salvati. Lo fecero, sui nostri monti, gli inglesi Gordon Lett e Anthony Oldham. Una testimonianza profonda di fratellanza internazionale venne anche dai soldati italiani che si trovarono in terra straniera dopo il dissolvimento del nostro esercito l’8 settembre 1943: inviati non per liberare, ma per opprimere altri popoli, molti diventarono “partigiani all’estero” combattendo nella Resistenza jugoslava, albanese, greca, francese. Nell’accordo del 22 maggio 1944 a Barcellonette tra partigiani italiani e francesi c’era un forte richiamo all’europeismo. La Resistenza sorse sulle ceneri del nazionalismo, in uno scontro con la questione dell’identità nazionale.

Oggi c’è un ritorno, in alcune parti politiche, alla Nazione con la N maiuscola. Non c’è dubbio che le crisi succedute negli ultimi anni – economica, climatica, pandemica, bellica – spingano per riconsegnare agli Stati nazionali un ruolo di protezione. La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta finora è finita, ma ciò non significa che si possa tornare al mondo di prima. Perché le grandi sfide che abbiamo di fronte non sono affrontabili se non globalmente, con lo stesso spirito di fratellanza internazionale espresso nella Resistenza. L’unico capace di costruire un mondo più giusto.

Post scriptum
Sui temi di oggi rimando ai miei testi:
“Quei disertori del Reich nel Vento del Nord”, patriaindipendente.it, 8 dicembre 2021
“Enrico, il soldato delle SS diventato partigiano”, Il Secolo XIX nazionale, 19 agosto 2022
“In memoria di Enrico, l’ultimo ‘buon tedesco’”, patriaindipendente.it, 19 agosto 2022

La foto in alto è della tessera di partigiano di “Enrico” Rahe.
La foto in basso, scattata a Spezia nei primi anni Settanta, ritrae, da sinistra, Giorgio Giuffredi, “Enrico” Rahe, Vera Del Bene, la moglie di Giorgio e la moglie di “Enrico”. Giorgio Giuffredi era un partigiano che combatté con “Facio”, fu uno dei nove eroi della leggendaria battaglia del Lago Santo del 19 marzo 1944. Vera Del Bene, sorella di Mauro, era una partigiana della “Gramsci”.

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