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Rubrica

Riflessioni sul “popolo di destra” e sul “popolo di sinistra”

Il monte Chiappozzo dal sentiero Valletti-passo del Biscia (2020) (mostra fotografica di Giorgio Pagano "Arte, storia e natura nelle terre di Varese" - Varese Ligure, Castello dei Fieschi - 27 agosto-11 settembre 2022)

Che succederà alle elezioni del 25 settembre? La risposta è, tutto sommato, abbastanza semplice.
In Italia convivono due “popoli” che hanno visioni del mondo diverse, insieme a molti tratti in comune, tra cui parecchi difetti. Il primo è il “popolo di destra”, l’altro è il “popolo di sinistra”. In questa fase “il popolo di destra” ha una rappresentanza abbastanza unita, quello di “sinistra” non ne ha o quasi.
Entusiasmo in giro, in ogni caso, ce n’è poco. Uno dei maggiori studiosi della destra italiana, Marco Tarchi, sostiene che della “situazione letargica della politica italiana sono responsabili un po’ tutte le parti politiche”, perché prive di sistemi di idee e dedite solamente a gestire, magari male, la normale amministrazione. Non è granché per mobilitare i cittadini.
La “destra” politica ha un programma abbastanza chiaro: un ridisegno radicale del regime democratico, presidenzialismo da una parte, regionalismo differenziato dall’altra; la tassa piatta per far pagare meno a chi ha più, continuando a lasciare il carico del fisco su lavoratori dipendenti e pensionati; la distruzione del reddito di cittadinanza; sull’ambiente la continuità con Cingolani, che è stato un vero disastro perché ha puntato tutto su rigassificatori e nucleare invece che sulle rinnovabili; in politica estera un neoatlantismo senza autonomia, che accetta la guerra invece di concentrarsi su un percorso di pace e cooperazione internazionale. E’ un programma che, se attuato, darà un colpo grave all’unità del Paese e alla democrazia come comunemente la si intende, favorirà socialmente i più forti, aggraverà la crisi climatica e non contribuirà a superare le difficoltà che avremo questo inverno con il gas, spingerà al riarmo e alla guerra. Nulla di nuovo: non a caso sono candidati quasi tutti i ministri del ventennio berlusconiano, all’insegna del déjà-vu (ancora Tremonti, che era scappato dal retro per evitare il linciaggio!), e Fratelli d’Italia -la Meloni diventata liberista- incarna le vesti di una riedizione della Forza Italia di 28 anni fa.
Sul fronte opposto le forze politiche di “sinistra” o “non di destra” si dividono, grosso modo, in due. Da un lato i partiti, Pd in primis, che hanno di fatto abbandonato la tradizione socialista e socialdemocratica e quella del cattolicesimo sociale, sposando il liberismo -salvo minoranze interne, scarsamente incidenti- e spesso anche il presidenzialismo decisionista (vedi controriforma Renzi, bocciata dagli italiani). Dall’altro lato una forza, il M5S, che ha perso in questi anni il suo elettorato di destra e che oggi si presenta con un profilo laburista e pro welfare, e la piccola Unione Popolare guidata da De Magistris. Due forze più “radicali”, non solo sul terreno sociale, ma anche sui temi della difesa della Costituzione, dell’ambiente e della pace.
In queste settimane molti hanno proposto la ricostituzione dell’alleanza Pd-M5S-sinistra, che aveva governato -abbastanza bene- all’epoca del Conte 2. Ma con la formazione del governo Draghi -lo avevo previsto nell’articolo di questa rubrica “La politica al tempo di Draghi”, 28 febbraio e 7 marzo 2021- la politica aveva ormai virato a destra. Questa alleanza, la sola che sarebbe stata competitiva con la “destra” alle elezioni, ha perso progressivamente forza e in queste settimane non è stata neppure presa in considerazione, condannando in questo modo i partiti di “sinistra” o “non di destra” a una sconfitta annunciata.
Perché è avvenuta questa rottura? La ragione della cieca avversione del Pd verso Conte non è la caduta del governo Draghi. Se fosse così, perché Letta avrebbe oggi al suo fianco, oltre all’inesistente Di Maio, la piccola sinistra di Fratoianni, che è sempre stata all’opposizione di Draghi? La ragione sta a monte: e cioè nell’accusa a Conte, da parte del blocco sociale cui Letta risponde, di “inaffidabilità” rispetto al binario unico, liberista e atlantista, predicato dall’establishment (pur essendo Conte tutt’altro che “rivoluzionario”). Secondo molti commentatori la rottura va addebitata alla “funesta vocazione centrista che spadroneggia nel gruppo dirigente del Pd” (Gad Lerner), un partito che è ormai “centro conservatore” (Massimo Cacciari), la cui “parola d’ordine è ‘amministrazione’ e la cui funzione è il presidio della tecnica come governo e del governo tecnico” (Donatella Di Cesare).
Uno studio molto interessante del Max Plank Institute sull’elettorato del Pd spiega bene quanto è accaduto. Ne emerge il profilo di un elettorato “centrista” sui temi economico-sociali e “progressista” sui temi dei diritti civili. Caratteristiche che sono in linea con la composizione socio-demografica dell’elettorato. Chi esprime un orientamento di voto per il Pd ha infatti un reddito superiore alla media e dichiara di avere minori problemi economici rispetto agli altri. Sono invece fortemente sottorappresentati i disoccupati e abbastanza sottorappresentati i lavoratori manuali. Alla luce degli orientamenti espressi dal suo elettorato non è dunque sorprendente che il Pd esprima una “vocazione centrista”, ma al contrario perfettamente comprensibile.
La domanda diventa allora: può una forza politica di questo tipo ambire a essere maggioritaria? Il Max Plank Institute scrive che l’esperienza di altri Paesi suggerisce di no: tutti i tentativi di convergere verso il centro sono falliti. La sfida di Letta è chiara: presuppone che nessuna offerta politica credibile emerga a sinistra e che gli elettori con questo orientamento scelgano, turandosi il naso, il “meno peggio”. Ma non è detto che le cose vadano in questo modo. Una parte dei delusi si asterrà -il 72% dei ceti medio-bassi e bassi non partecipa alle elezioni, mentre man mano che si sale nella scala sociale aumentano progressivamente le percentuali di votanti- e una parte voterà addirittura a destra. Mentre a sinistra il M5S e Unione Popolare potrebbero coprire una parte di un ampio territorio lasciato scoperto. Gli “scappati di casa”, con il reddito di cittadinanza, non hanno forse assicurato molte persone di non finire per strada?
Formuliamo la domanda in quest’altro modo. Come voteranno i sei milioni di poveri assoluti e gli otto milioni che hanno appena l’indispensabile per mangiare? Come voterà chi pensa che oggi il pericolo più importante sia la crisi climatica? Come voterà chi vuole difendere la Costituzione? Come voterà la maggioranza che vuole la pace e non la guerra?
Ciascuno voterà come voterà, ma chi punta sul “voto utile” probabilmente si illude. Anche perché il “peggio” che si voleva combattere con il “meno peggio” in questi anni è aumentato, non è diminuito. E poi il “voto utile” vale per i collegi uninominali, che sono quasi tutti “sicuri” per la “destra”. La competizione si sposta soprattutto sul proporzionale, dove vengono comunque assegnati i 5/8 dei seggi, e dove il “voto utile” non conta.
Una cosa è certa: dopo queste elezioni, qualsiasi sarà l’esito, il “popolo di sinistra” dovrà articolarsi in comunità. E dovrà tentare -con un lavoro profondo di analisi, tutto interno alla società- di costruire qualche cosa che dia voce alla necessaria “sinistra” del XXI secolo, con una nuova visione. Un solo esempio: ma come ci si può ancora definire “progressisti” dopo tutto quello che abbiamo visto e appreso della storia brutale del “progresso”?
A noi cittadini spetta fare la nostra parte. Votare ma anche cominciare a pensare al “mondo di dopo”. Dando vita a una sorta di federazione di partiti, realtà sociali, cittadini che faccia a meno del ceto politico dei partiti sconfitti. Fin da quando, nel 2007, abbandonai la “politica tradizionale”, ho fatto riferimento ai monasteri della fine dell’antichità classica, capaci di attraversare la fine di una civiltà per impollinarne una nuova. I moderni monasteri esistono già, sono le tante “cellule locali della solidarietà e della cultura” (la definizione è di don Virginio Colmegna) che custodiscono esperienze e tradizioni di saperi, di lotte del lavoro, di volontariato, di mutualismo solidale, di accoglienza, di impresa etica che, federate tra loro, creino le condizioni, tramontato il “mondo di ieri”, per il “mondo di dopo”. Sarà una lunga marcia, ben oltre le urne del 25 settembre.

Post scriptum:
sul “popolo di sinistra” rimando al mio intervento di presentazione del libro di Salvatore Biasco “Le ragioni per un ritorno alla socialdemocrazia”, leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com
Le fotografie di oggi sono esposte nella mostra “Arte, storia e natura nelle terre di Varese” (Varese Ligure – Castello dei Fieschi, 27 agosto-11 settembre)

Passo della Cappelletta, lapide in memoria dei caduti della Brigata partigiana Vecchia Centocroci (2021) (mostra fotografica di Giorgio Pagano
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