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Quisquilie e meraviglie

Alla Maestra Bedeschi

di Beppe Mecconi

La cena delle beffe

“Cara Maestra mi fa piacere sapere che vi siete ristabilita dal raffreddore (sono d’accordo, quelli estivi sono i più fastidiosi), e grazie per il bel libro sulle storie antiche di Toscana che col sangue dei miei mi scorre nelle vene, ma, oramai, già ve lo scrissi, considero questo paese come il mio, del resto sono quattordici anni che son qui, qui ho preso moglie, ho tre bei figlioli e ormai parlo in dialetto.
Sapete? L’altra settimana, con la filodrammatica abbiamo fatto uno spettacolo per i nostri soldati al fronte. Abbiamo messo in scena “La cena delle beffe” di Sem Benelli, e lui in persona ci ha diretto! Come già vi feci sapere soggiorna qui dal 1909 e proprio qui ha scritto parte del suo dramma che sta avendo un gran successo in tutto il mondo, a Nuova York come a Parigi, dove fu Sarah Bernhardt a impersonare Giannetto (a me mi pare un poco strano che una donna anziana impersoni un giovanotto, ma lei è la più grande, dicono, e può fare quello che vuole).
Lui, Benelli, benché di poche parole, è alla buona e non si dà arie per nulla.
La recita fu un trionfo, io facevo Gabriello e col mio accento toscano andai benissimo. Adele si è vergognata un poco a vedermi coi braghettoni a righe gialle e rosa e la parrucca di stoppa ma infine anche lei mi disse che ero stato bravo.
Non ricordo se vi scrissi che fu proprio il Benelli a fare l’orazione funebre per Paolo Mantegazza cinque anni orsono quando per i suoi funerali vennero scienziati, poeti, vecchi patrioti e onorevoli e che fu lui in quel discorso a chiamare per la prima volta questa baia “il Golfo dei Poeti”.
A me parve molto bella già allora quella definizione e infatti ormai la scrivono ovunque e del resto è pur vero che qui ci son passati tutti, a principiare dal Dante.
Strane genti quelle di questo paesino.
Erano in poche anime eppure furono tanti i patrioti che da qui partirono col Pisacane e poi coi Mille.
Uno di qui che chiamavano, per sfotterlo, Ipiscilonne perché aveva un difetto di pronuncia e non era capace di dire bene la Y (qui tutti hanno un soprannome), nel 1849 salvò Giuseppe Garibaldi trasportandolo con la sua barca da pesca da Cala Martina, sotto Follonica, sapete, nelle bandite di Scarlino, a Porto Venere, cioè nel Regno di Sardegna, mentre moltissimi soldati lo stavano cercando per tutta la Toscana.
Garibaldi per riconoscenza, perché quel pescatore rifiutò i suoi denari, gli lasciò un biglietto di ringraziamento scritto di sua mano che ho avuto la fortuna di vedere, e, cara Maestra, mi duole dirlo, ma ci son parecchi errori di grammatica.
I miei nuovi compaesani forse sono realmente un poco “selvaggi” come li definì la moglie dello Shelley, quella che ha scritto il Frankenstein, e un bel carattere non l’hanno di sicuro, ma io, per quel che li ho conosciuti in questi anni: li direi caparbi, incapaci di false smancerie, schietti e concreti.
Pensate che m’hanno raccontato che furono i paesani stessi, senza l’aiuto di nessuno, a costruirsi la piccola fortezza che domina il borgo per difendersi dai pirati.
C’è una storia curiosa a codesto proposito; dietro il castello, proprio sotto alla rupe dove a stento crescono un paio di alberelli, un leccio e un pino, tanto è ripida, e dove si può andare solo via mare, c’è una grotta abbastanza alta e profonda, la chiamano “La tana dei Turchi”, che ci si può entrare con la barca remando con cautela tra gli scogli che ci sono all’ingresso, lì dentro l’acqua sembra di cristallo e al tramonto il riflesso del sole basso all’orizzonte illumina le pareti e la volta con cento colori diversi e cangianti ed è davvero bella.
Ebbene proprio lì dentro, credo intorno al mille e seicento, si nascosero sette pirati saraceni cercando scampo dopo che col loro vascello avevano cercato di assalire il borgo.
I paesani li respinsero ma quei sette non riuscirono a tornare a bordo della nave e cercarono rifugio nella grotta. Purtroppo per loro vennero scovati e uccisi e i loro scheletri dicono che ancora biancheggino sul fondo, io però non li ho veduti.
Vi saluto cara Maestra a cui devo tanto, spero di vedervi ancora un giorno e abbracciarvi.
I più affettuosi saluti dal sempre vostro affezionatissimo allievo

Amerigo

Poscritto; il nomignolo che han dato a me da qualche anno è “Capriola” per via della ginnastica che da sempre pratico. Mi fa un po’ ridere ma ormai ci tengo, a volte i miei bimbi li chiamano caprioli o capriolini, e mi fa ridere.”

 

 

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