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Quisquilie e meraviglie

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Qualche riga sulla vita di Sia Cè

Staffetta partigiana

Sia Cè aveva attraversato incolume la guerra del ‘15-‘18 e nell’inverno successivo, quando anche lei fu colpita dalla pandemia di influenza “spagnola” che fece 50 milioni di vittime in soli sei mesi, contro i 10 milioni della Grande Guerra, le caddero soltanto i capelli.

In quei mesi teneva la testa calva nascosta sotto foulard coloratissimi che s’era portata dal Brasile – quando era andata a trovare dei parenti emigrati a San Paolo, ma non aveva resistito molto lontana dal paese –, e comunque, neppure un anno dopo, la sua chioma era nuovamente folta e stretta in una bella treccia avvolta e fermata sulla nuca. 

L’avambraccio sinistro, ferito nello Scoppio della polveriera di Falconara del ’22, aveva inglobato quella scheggia di vetro che lei mai aveva voluto farsi togliere, forse per avere in corpo memoria di quella tragedia. Il braccio era rimasto gonfio, ma non le doleva quasi mai.  

Nel 1937 quando Anacleto, che con quella zia s’intendeva e si confidava più e meglio che con chiunque altro, andò a confidare a lei – prima di tutti – il desiderio di partire per la Spagna, lei gli rispose urlando di non dire belinate e che andare coi fascisti sarebbe stata una vera porcheria. Lui ribatté che aveva una smania di avventura e che le brigate internazionali non davano una lira, che a casa c’era bisogno di qualche quattrino e che era stata proprio lei a insegnargli a non essere mai banale. 

Dopo un lungo silenzio, occhi negli occhi, adirati, lei lo abbracciò dicendogli di assecondare quella schifezza di sogno, anche perché era comunque meglio vivere di rimorsi che di rimpianti.

Quando in paese si venne a sapere che Anacleto era stato ucciso, indossò vesti nere in segno di lutto, che tolse solamente due anni dopo, quando si venne a sapere che, dopo aver visto le atrocità commesse dai fascisti a Guadalajara, era passato senza un attimo di esitazione dalla parte libertaria di quell’orribile guerra.

Come del resto a tanti, la seconda guerra mondiale le fece sperimentare la fame, quella nera, quella che strizza lo stomaco e non fa dormire.

Suo fratello Bepino s’era sbarcato e qualche soldo da parte lo avevano ma nei negozi dei dintorni non c’era nulla da comprare, e i nazifascisti, dopo avere fatto sfollare le case sul lungomare, costruito un bunker sotto al castello e un muro alla marina contro eventuali sbarchi degli alleati, avevano pure vietato ai paesani di uscire in mare per la pesca.

Così non c’erano nemmeno pesci da mangiare e patelle e muscoli erano bell’e spariti dagli scogli già da un po’.

Come aveva sentito dire dai suoi vecchi nei racconti intorno al focolare da bambina, non poche volte aveva spellato e messo a cuocere e a ricuocere delle ghiande finché, perdendo quasi tutto l’amaro, si potevano mangiare.

Aveva sessantadue anni ed era ancora bella quando fece sei viaggi a piedi fino alla pianura di Parma per scambiare un poco di farina, formaggi o salumi con il sale che otteneva facendo bollire acqua di mare dentro ai pentoloni sopra ai fuochi fatti sulla spiaggia. 

Una volta sulla Cisa, sulla via del ritorno, s’era attardata per fare i suoi bisogni, i tedeschi la sorpresero e le portarono via tutto; non la violentarono solo perché si sentirono degli spari in lontananza, ma le avevano già strappato la maglia rivelando un seno ancora florido che mai nessuno aveva accarezzato mentre lei, muta, fissava dritto negli occhi quel sergente dalla faccia butterata.

Un’altra volta la fermarono dei giovanissimi partigiani sbandati che cercavano di riunirsi alla loro brigata e fecero a mezzo di tutto quello che c’era sul carretto. 

In un altro viaggio, in gruppo ché non conveniva andare soli, era ormai buio e qualche scimunito aveva acceso una lucerna: sentirono il tipico ronzio di “Pippo”, l’aereo misterioso, che, avendo notato subito quella fievole luce, si mise a mitragliare uccidendo sul colpo due ragazze di Aulla.

Durante i rastrellamenti del ‘44, insieme a suo fratello, diede per tre volte rifugio, nel piccolo appartamento che gli avevano assegnato in uno dei palazzi costruiti dopo l’esplosione di Falconara – dato che il loro era andato distrutto –, ad alcuni partigiani: quelli che stampavano documenti clandestini nella tipografia nascosta dentro la cisterna della villa abbandonata nel bosco sopra La Serra. 

In una di quelle occasioni fece pure da staffetta andando, con la bicicletta di Arbè “bisceta”, fino a Sarzana superando quattro posti di blocco con la scusa vera di una parente in ospedale, ma portando volantini e giornali infilati nelle calze e legati stretti con lo spago a tutte e due le cosce.

Non prese mai la tessera del PCI, benché suo fratello gliel’avesse proposta varie volte, non le interessava la politica dei partiti, le interessava la giustizia. Fu sempre accanita sostenitrice dei diritti degli sfruttati e delle donne. Si infuriava veramente, arrivava a fare paura, quando qualcuno sosteneva che le donne: “Era meglio che pensassero a far figli, altro che diritto al voto…”.

A fine maggio del ‘46, ad un comizio alla marina del neopartito “Fronte dell’Uomo Qualunque”, salì sul palchetto e diede uno schiaffo a un giovanotto che con fare da pagliaccio sbeffeggiava la Resistenza. 

Il 2 giugno provò vera soddisfazione quando per la prima volta, come altre tredici milioni di donne italiane, introdusse la sua scheda elettorale nell’urna votando per il referendum tra Repubblica e Monarchia; il primo a suffragio universale. In paese il Re arrivò a stento al 23%. 

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