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Quisquilie e meraviglie

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La grande mareggiata

La grande mareggiata

Il 13 di novembre, a cominciare dalle 23, quasi sempre arrivano di notte come i ladri, gli incubi e le angosce, una furibonda mareggiata come da decenni non se ne vedevano, colpì i paesi della costa.

A Tellaro, l’ultimo villaggio del comune verso est – che poi di là cominciano gli spiaggioni che ci si arriva solo da sentieri da capre o per mare e poi c’è la foce del fiume e la piana di Luni – tutte le nove barche, che, come ogni volta, erano state tirate in secco nella minuscola marina che sembra quella di un presepe, furono trascinate via dalle ondate e fracassate come fossero state centrate da un treno in corsa. Nemmeno una si salvò.

Contro i muri, sul tetto d’ardesia e il campanile della chiesetta “del polpo”, che da secoli se ne sta appoggiata come un giocattolo scordato da bambini sugli scogli, si scagliavano e si sbriciolavano onde alte più di quattro metri frantumando le finestre e arrivando sino alla campana ma facendo tutto sommato pochi danni.

A Lerici, il promontorio della fortezza e il molo protessero dai colpi di mare i battelli e le case, anche se cinque imbarcazioni, quelle ormeggiate più all’esterno nella rada, strapparono gli ormeggi e si andarono ad arenare, quasi intatte, sulla sabbia del Lido.

Le abitazioni e le botteghe sulla via, grazie al riempimento ormai ultimato di massi e terra dove prima c’era il mare e dove stavano per sorgere i giardinetti, questa volta furono tutte risparmiate.

Meno fortunato fu Trabastìa, esposto direttamente alla tempesta e senza alcuna protezione fatta dalla natura o dagli uomini.

L’orizzonte soltanto sta davanti a Trabastìa e, lontane, le due isole, e l’orizzonte ha negli occhi chi ci vive, ma quella notte tutto era nero.

Gli uomini e i ragazzi del paese si ritrovarono sul bagnasciuga gelato a piedi nudi per cercare di recuperare le barche da pesca che la sera prima non erano state messe in salvo sulla marina. Tutti insieme, amici e nemici, sotto la pioggia fitta, senza neppure sapere di chi fosse la barca che cercavano di strappare alle ondate, anche se fino a poche ore prima potevano aver litigato come bestie, stavano ora faticando insieme sulle cime sotto le raffiche del vento gelido e fradicio per cercare di salvare il salvabile.

Purtroppo sette gozzi andarono distrutti e il vecchio Dilmo si ruppe il polso. I negozi, le trattorie e tutti gli scantinati furono invasi e devastati dalle acque, le panchine di cemento sradicate e sballottate qui e là come fossero fatte di pietra pomice, ma un altro danno, il maggiore, si rivelò con i primi grigi chiarori del mattino.

La furia dei cavalloni aveva fatto a pezzi il muretto di mattoni che da neanche un anno era stato costruito sul lungomare, dove finiva la magra spiaggia, a protezione della strada e delle case e ora nuovamente nulla si frapponeva a proteggere il borgo dalle burrasche future.

 

Non erano ancora le otto e mezza, un timido sole cominciava appena a farsi largo tra i nuvoloni e il mare iniziava lentamente a placarsi, quando Alcino, Arbè “veleno” e qualche anziano dei più irascibili, ai quali si aggregò presto un numeroso gruppo di trabastini, uomini e donne, si avviarono verso il capoluogo.

Salirono al Municipio e senza aspettare l’autorizzazione entrarono negli uffici del Sindaco, in seduta col Segretario comunale e tre Assessori, rinfacciandogli, senza giri di parole, che: “Se a Lerici si piantavano oasi di palme, cedri del Libano e carrube del belino per agghindare il paese, Trabastìa pretendeva nel modo più assoluto che si erigesse una massiccia e resistente diga a un centinaio di metri dalla riva a salvaguardia della baia e dell’abitato. E non per far bella presenza come i tanto decantati futuri giardini del capoluogo ma per proteggere le attività e le vite stesse degli abitanti, donne e uomini e bambini”.

Gli rammentarono poi, nel caso il potere gli avesse offuscato la memoria, che era stato il valoroso Commissario politico di una Brigata partigiana e che non poteva ora permettersi di tradire gli ideali di una volta rivolti al benessere del popolo per favorire i ghiribizzi estetici della borghesia clericale; infine lo fecero giurare sul suo onore di partigiano che al più presto, come primo cittadino, avrebbe provveduto alla bisogna.

Alcino gli rammentò anche, in faccia e a muso duro mentre gli altri tenevano fuori dall’ufficio le guardie municipali sopraggiunte, che ben più della metà dei voti che erano serviti alla sua nomina li aveva ricevuti a Trabastìa.

 

Il marzo successivo iniziarono i lavori, con il via vai di un’enorme chiatta carica di grossi scogli che una massiccia mancina ben imbullonata al pontone prendeva e con gran fracasso rovesciava in mare.

Ci vollero quasi tre mesi ma infine davanti al paese, in linea col castello, si stendeva una diga lunga una settantina di metri, un poco scarsa, a dire il vero, dissero i vecchi pescatori in altezza e larghezza ma sufficiente almeno a spezzare un poco le ondate di libeccio.

 

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