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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Trabastìa (o sul toponimo)

"... mi spiegò, decisamente in modo esplicito, che per lei quel nome, e quindi quel luogo, è legato a quando era bambina, molti molti decenni prima; a quando solo poche abitazioni avevano i servizi igienici e tutti quanti, o la gran parte dei paesani andavano ad espletare le loro funzioni corporali in quella zona, tra gli scogli, perché ancora non c’era né strada né sentiero".

Arcipelago spezzino

Stamani durante la prima prova di lettura di un piccolo spettacolo dedicato a Shelley – scritto una quindicina di anni fa dal compianto Guido – durante una pausa, parlando del più e del meno, chissà per quale strano meccanismo mnemonico, mi è tornato in mente e ho raccontato un singolare episodio, che avevo scordato, capitato poche settimane dopo l’uscita del mio “Trabastìa”, romanzo sì dedicato a mia madre – che da poco se n’era andata – ma anche al mio paese, al paese che amo.

Successe questo: ai compaesani, il cui giudizio temevo assai, il libro piacque molto e si divertirono pure nel cercare di riconoscere i personaggi di cui narro in quelle pagine ai quali avevo cambiato il nome e un poco romanzato, come se ce ne fosse stato bisogno, le vite.

Ricevetti molti messaggi, e-mail, e altre attestazioni di gradimento, davvero tanti, cosa che mi rese orgoglioso, anche perché conosco bene lo spirito critico, spigoloso, sardonico, a volte addirittura caustico della mia gente.

Unica voce fuori dal coro fu un messaggio arrivatomi su Facebook.

Una nipote scriveva da parte della molto molto anziana nonna, una nonna molto molto arrabbiata, perché avevo cambiato il nome del paese con il toponimo che indica la zona dietro il piccolo castello. L’avevo fatto proprio perché quel lavoro è un romanzo, non un saggio storico, e volevo che fin dal titolo fosse chiaro.

Mi feci dare il numero di telefono e la chiamai, spiegai alla signora questa cosa diciamo “tecnica” ma a lei non stava bene per niente, proprio non le andava giù, e quando le chiesi il motivo di questo suo rifiuto mi spiegò, decisamente in modo esplicito, che per lei quel nome, e quindi quel luogo, è legato a quando era bambina, molti molti decenni prima; a quando solo poche abitazioni avevano i servizi igienici e tutti quanti, o la gran parte dei paesani andavano ad espletare le loro funzioni corporali in quella zona, tra gli scogli, perché ancora non c’era né strada né sentiero.

Rimasi sbalordito e, sinceramente, divertito. Non avevo mai saputo di questo “pittoresco” particolare. E lei si adirò di più, pensava mi facessi beffa del suo sentire.

Mi scusai molto, non era assolutamente mia intenzione essere scortese o poco attento, e le raccontai che per me invece quel nome e quel luogo avevano significati assolutamente diversi.

Le spiegai che quel posto era, ed è, per me fonte di eterne e belle nostalgie.

Era lì che da ragazzini, quando già esisteva un percorso pedonale che portava alla spiaggia, essendo la zona illuminata soltanto dalla luna e dalle stelle, si andava a scambiarsi i primi baci con le coetanee di Parma, tenacemente corteggiate durante le infinite “vasche” in passeggiata, scese per la fine delle scuole all’inizio dell’estate.

O ancora prima, quando lì si andava con i compagni delle medie per fumare le prima sigarette nascosti nell’ombra del grande pitosforo, e a confidarci i sogni e le speranze. Momenti di intimità tra fratelli più che tra amici.

E poi, le dissi, lì ho uno dei pochi ricordi di mio padre che troppo presto se ne andò.

Avrò avuto quattro e lui mi portò una sera in barca, non c’era altro modo per raggiungerla, dentro la Tana dei Turchi, una grotta sotto il castello (ora ormai riempita di terra e perduta per sempre, con tutti i ricordi che ha portato con sé). Era, ed è ancora nella mia memoria, una piccola Grotta Azzurra, l’acqua era trasparente, come se non ci fosse, si vedeva il fondale nitidamente, con i pesci e le alghe e i granchi che si muovevano sul fondo.

Mi raccontò la leggenda dei pirati che lì provarono a rifugiarsi dopo un assalto al paese, 500 anni prima.

La luce del tramonto entrava di taglio e il riverbero rendeva quel luogo assolutamente, struggentemente meraviglioso e magico. La voce credo mi si spezzò dalla commozione, rimasi in silenzio, così come la signora dall’altro capo del filo. Poi, dopo un attimo, che mi sembrò lunghissimo sentii la sua voce, modellata da un’infinità di anni, che diceva: “Ho capito. Ti perdono.” E riattaccò.

Sorrisi, mi sentivo leggero. Avevo un altro bel ricordo legato a Trabastìa.

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