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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Dal diario di Angelica, 1943

di Beppe Mecconi

Angelica

I tedeschi ogni tanto effettuavano dei rastrellamenti e la gente, specialmente gli uomini, si nascondevano, ma loro sapevano come attirarli nei tranelli, per esempio li facevano andare a fare la coda per la razione di sigarette.
Mio fratello Marco – essendo mio padre ultrasessantenne con tre sorelle a carico non aveva fatto il militare e in tasca aveva sempre il documento, da rinnovare ogni anno, che lo dimostrava – un mattino se ne va tutto tranquillo a Sarzana per ritirare la spettanza di sigarette.
Quando arrivò il suo turno, visto che è giovane gli chiedono come mai non è militare, lui gli mostra quel foglio ma era scaduto, così lo arrestano e lo portano nella caserma delle Brigate nere che si erano alleate con i tedeschi dopo la caduta del Duce.
Quel giorno me ne stavo tranquilla per strada vicino a casa quando mi chiama un uomo che veniva da Sarzana, Angiolin, e mi dice quel che era successo a mio fratello; mi ricordo che stavo mangiando un pezzo di pane e che per la rabbia lo gettai via, quel pane tanto prezioso.
Subito sono partita per Sarzana ma mi venne in mente di passare prima al Comando dei tedeschi che erano in una villa a Fiascherino, mi risposero che se era per altre cose si sarebbero interessati ma per cose di servizio militare non potevano fare niente.
Ripartii per Sarzana, a Maramozza incontrai mio zio Silvio che mi consiglia di andare alla Serra dove abitava la famiglia di quel tenente che aveva arrestato mio fratello.
Cercai sua mamma, mi accolse con comprensione, fece scrivere dalla figlia una lettera che mi diede da consegnare a suo figlio dove diceva che siamo suoi parenti, e, se poteva, di lasciarlo libero.
Senza mangiare, sempre a piedi dalla Serra proseguii per Sarzana.
Al comando dove mi presentai tremante mi dissero che il tenente Zanello era andato a riposare, mi indicarono la casa e io aspettai che uscisse.
Non lo conoscevo, era un bel giovane, gli consegnai la lettera, piangendo. Lui mi disse “E piangi!”. Non piansi più.
Con lui ritornai al comando, qui chiamò un suo superiore di nome Gallo; questo, finita la guerra, venne fucilato per le nefandezze che aveva fatto ai partigiani.
Cosa si dissero non lo so, so solo che mio fratello fu liberato e quando lo vidi uscire insieme a questo tenente gli dissi di ringraziarlo ed anch’io lo ringraziai.
Poi mio fratello mi disse che quando si sentì chiamare pensò subito che ci eravamo mossi per farlo uscire e che altri giovani, presi come lui, si erano raccomandati di fare qualcosa per loro.
Non sappiamo che fine hanno fatto, ma una parte li avranno deportati in Germania e qualcuno lo avranno ammazzato, perché finita la guerra hanno trovato delle ossa umane in una cisterna.

Nella via dove abitavo da quando ero nata, che allora si chiamava via Duca di Genova e ora via Matteotti, i tedeschi fecero sfollare tutte le case perché dal lato mare c’erano e ci sono ancora degli orti. I tedeschi si erano stabiliti in una di quelle case e negli orti ci fecero dei camminamenti dove si appostavano di vedetta contro gli attacchi dal mare.
Così noi siamo andati ad abitare sui monti di Zanego, che avevamo un campo vignato e seminativo con una casetta abbastanza buona.
Un mattino vennero da noi per nascondersi alcuni uomini di Ameglia che al loro paese effettuavano un rastrellamento, e lì chi la paga la paga.
Un giovane che avevamo nascosto in casa mi incaricò di andare dalla sua famiglia con un biglietto per avvisarli che era al sicuro da noi e siccome suo padre aveva il forno gli diceva di darmi del pane con i bollini scaduti che avevamo della tessera annonaria; tante volte non arrivava la farina, il pane non lo facevano e così ci rimanevano quegli inutili bollini.
Quando arrivai ad Ameglia seppi quello che era successo, avevano ucciso a raffiche di mitra quattro giovani.
I due di Ameglia, ricordo il nome del più giovane, Sergio, li avevano già portati nelle loro case. Gli altri due erano i fratelli Landi di 20 e 23 anni, della Serra, li conoscevo.
Li avevano prelevati nel loro campo mentre stavano lavorando la terra. Mi sono fatta indicare il luogo dell’eccidio e trovai, ancora lì dove li avevano abbattuti, i due poveri corpi a ridosso di un argine, li rivedo come fosse adesso. Le pallottole del colpo di grazia avevano lasciato sui loro visi buchi rotondi, uno era in mezzo alla fronte, l’altro alla tempia, mani pietose li avevano già puliti dal sangue, i loro parenti non sapevano ancora della loro fine.
Questa scena non l’ho mai dimenticata, e questi due ragazzi ogni tanto li rivedo al cimitero di Lerici, che ci vado perché c’è sepolto mio marito.
Questi fatti non sarebbero da credere se non li avessimo visti coi nostri occhi.
Anche nei paesi più piccoli c’è stata una terribile guerra fratricida, un odio bestiale solo per un’idea diversa.
Questi quattro ragazzi sono stati ammazzati dai fascisti dei paesi vicini solo per un’idea diversa, e forse fino a poco tempo prima giocavano a carte insieme.

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