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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Così anche la zia Cè se ne andò

di Beppe Mecconi

Zia Cè

Non stava male, non era mai stata male. È che ormai aveva novantanove anni.
Beppe aveva perso la scommessa con suo fratello Amerigo, per poco.
Aveva scommesso, nove anni prima, alla festa del novantesimo, che la zia Cè avrebbe passato i cento; Amerigo, per scaramanzia perché adorava quella zia con la quale aveva trascorso praticamente tutta l’adolescenza, aveva puntato sul “no”. Ora, lui che era stato cuoco ed era morto per il troppo cibo, aveva vinto una cena.
A volte sa essere anche buffa la vita.
Negli ultimi cinque anni due o tre notti alla settimana Mina, la nipote, mamma di Amerigo e Beppe, dormiva da lei; aveva cominciato nel ‘76 quando Beppe era andato a studiare anche lui a Bologna, perché erano ricapitate le storie del gas – la famiglia a fianco per fortuna aveva sentito l’odore –, e dell’acqua scordata aperta.
Un paio di volte in piena notte d’inverno era suonato il telefono, erano quelli che le stavano di sotto che nel silenzio sentivano il rubinetto e siccome la Cè lasciava sempre una spugnetta nel lavabo era successo che la casa andasse a lago, e dai allora, con stracci e secchi, a tirar su l’acqua e quasi al buio per non svegliarla, che se no ci rimaneva male.
Fece come sua sorella Adele, una mattina non si svegliò.
Quella notte Mina non l’aveva passata da lei perché voleva seguire alla TV le notizie sull’attentato che c’era stato a Roma, in piazza San Pietro.
Un turco, tra la folla, aveva sparato a Papa Wojtyła ma non era riuscito ad ucciderlo. Qualcosa gli aveva fatto sbagliare il colpo – un vescovo assicurava che era stata la Madonna di Fatima perché quel giorno era l’anniversario dell’apparizione –, e dopo un intervento chirurgico durato cinque ore e mezza l’avevano salvato.
Alle sette e un quarto stava andando a farle il caffelatte come ogni volta che dormiva a casa, ma capì già dalla strada cos’era successo, perché le persiane della cucina erano ancora chiuse.
Andò su, aprì, la casa era al buio, accese la lampadina nell’ingresso e guardò a sinistra, nella camera coi due lettini dove per anni la zia aveva dormito con Amerigo, e negli ulti anni anche lei, quando si fermava per la notte.
Sembrava stesse riposando, fece un sospiro ed entrò nella stanza, si sedette sul bordo dell’altro letto, la luce arrivava dall’ingresso e la illuminava appena, rimase parecchi minuti a guardarla: aveva un aspetto sereno, i bianchi capelli sciolti e le rughe le si erano distese.

Pensai a quanti fatti aveva visto e vissuto in quell’enormità di anni, a tutte le cose che mi aveva raccontato sulla vita, sulla sua vita, sulla vita dei parenti e del suo paese. Pensai a quante cose avrebbe avuto ancora da raccontare, a quale enorme patrimonio di emozioni e di conoscenze se n’era andato con lei. A quante volte mi aveva aiutato e a quante avevamo litigato. Mi resi conto che la amavo profondamente, la mia zia Cè. Già mi mancava, quella meravigliosa vecchia sorda bisbetica. Andai a sdraiarmi vicino a lei, annusavo il suo odore di vecchia signorina, mi piaceva, sapeva di borotalco, mi accorsi che stavo gemendo, le baciai la fronte, tante e tante volte…
Poi mi alzai, c’era da organizzare un altro funerale.

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