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Luci della città

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Dalla Corsica a Framura e a Punta Bianca. Il viaggio senza ritorno di quindici giovani

Ameglia, piazza della Libertà, lapide in memoria dell'eccidio del 26 marzo 1944 a Punta Bianca (2021 - foto Giorgio Pagano)

Tra il 1943 e il 1944 la Corsica, liberata dai tedeschi, era diventata “piazzaforte militare” degli Alleati. L’isola fu ribattezzata “USS Corsica”, la portaerei inaffondabile. Da lì partirono molte operazioni di sabotaggio e di spionaggio, compreso il volo senza ritorno di Antoine de Saint Exupéry, l’autore de “Il piccolo principe”, il cui aereo fu ritrovato molti anni dopo al largo della costa marsigliese. Tra queste operazioni ci fu, a inizio 1944, quella chiamata “Ginny” -nome ispirato, sembra, alla fidanzata di uno dei quindici soldati del commando- che aveva come obiettivo la distruzione della galleria ferroviaria tra Bonassola e Framura, per interrompere i collegamenti delle forze tedesche che occupavano l’Italia. L’obiettivo fallì. La galleria, oggi dismessa, è diventata una bellissima passeggiata pedonale e ciclabile, dai cui finestroni si godono panorami mozzafiato, e vedute delle mareggiate che sono ineguaglabili. Un primo blitz, nella notte tra il 27 e il 28 febbraio, non riuscì perché il commando sbarcò in un punto sbagliato. L’operazione “Ginny II” fu ritentata il mese successivo. La terraferma fu raggiunta nella notte tra il 22 e il 23 marzo. Ci furono ancora errori, e altre complicazioni. I quindici soldati del commando si nascosero tra le rocce della spiaggia di “Scà”, poi raggiunsero una stalla abbandonata a Carpeneggio.

Ma chi erano i quindici? Erano militari dell’OSS, il corpo dell’esercito statunitense che veniva impiegato in operazioni speciali. I componenti dei commandos venivano generalmente scelti tra i soldati con origini familiari nei Paesi obiettivo delle missioni. In questo caso tredici figli di emigrati italiani in America e due nati in Italia. Raffaella Cortese de Bosis e Marco Patucchi, in una memoria pubblicata in un inserto di “Repubblica” del 29 giugno 2018, hanno raccontato le loro vite. Storie di emigrazione, di viaggi in nave durate settimane per raggiungere Ellis Island, a New York. Erano giovani operai, muratori, macchinisti, barbieri… Ecco i loro nomi: Santoro Calcara, Angelo Sirico, Alfred L. De Flumeri, Salvatore Di Sclafani, Joseph M. Farrell (la madre era italiana), John J. Leone, Joseph A. Libardi, Dominick C. Mauro, Joseph Noia, Vincent J. Russo, Thomas N. Savino, Rosario F. Squatrito, Paul J. Traficante, Liberty J. Tremonte, Livio Vieceli. I quindici non ebbero fortuna. A Carpeneggio un giovane contadino, Franco Lagaxio, diede loro del cibo e fornì informazioni sulla galleria. Ma la mattina del 24 un pescatore scoprì i gommoni e avvisò il Fascio di Bonassola. Lagaxio cercò di avvertire gli italo-americani, ma era ormai troppo tardi. I fascisti e i nazisti avevano già catturato il commando.

Dopo un primo interrogatorio a Bonassola i quindici vennero portati nella villa di Carozzo, nelle colline di Spezia, sede del quartier generale di Kurt Almers, comandante della 135a Brigata. Nonostante le regole della Convenzione di Ginevra che proibivano l’esecuzione di soldati nemici catturati in divisa, il 25 marzo arrivò l’ordine del 75° Corpo d’armata tedesco di fucilare immediatamente i prigionieri. Il telegramma fu firmato dal generale Anton Dostler, capo del 75°. Iscritto al partito nazista, era arrivato in Italia il 5 gennaio 1944, promosso dopo le azioni criminali in Ucraina. Almers tentò senza successo di far cambiare l’ordine. Nessuno dei quindici fu giudicato da un tribunale. All’alba del 26 marzo furono uccisi a Punta Bianca di Ameglia, dove i tedeschi avevano un deposito, una batteria e un Comando Marina. Furono fucilati o subirono anche altri oltraggi? Lo studioso levantese Giulio Mongatti, in una memoria, sostenne che “da accertamenti compiuti dalle truppe americane alcuni dei giustiziati furono sepolti ancora vivi”.

Punta Bianca, resti del presidio tedesco (2010) (foto Giorgio Pagano)

Chissà, è molto probabile che Rudolf Jacobs, l’ufficiale tedesco che divenne partigiano, sia stato spinto alla sua scelta di diserzione -nell’estate 1944- anche da un episodio come questo. Lavorava a Punta Bianca, vide l’orrore. Quando ricordiamo l’orrore tedesco non dobbiamo dimenticare che ci fu una minoranza di tedeschi che si oppose. La forza morale di questa scelta ci appare straordinaria, se rapportata alla miseria morale della maggioranza dei militari tedeschi. Dostler fu catturato nel dopoguerra e sottoposto a processo nell’ottobre del 1945, nella Reggia di Caserta. Si difese sostenendo di aver obbedito all’ordine di Hitler del 18 ottobre 1942, che prevedeva di fucilare tutti i commandos catturati. Dichiarato colpevole, fu fucilato ad Aversa il 1° dicembre 1945. Ma Dostler dipendeva dal feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante militare in capo del sudovest e del gruppo di armate C. Non poteva non averlo informato, né aver proceduto senza la sua autorizzazione. Sandro Antonini ha studiato, nel suo ultimo libro “Generali e burocrati nazisti in Italia: 1943-1945. Gli interrogatori dei vinti”, i verbali degli interrogatori dei nazisti nell’archivio americano di College Park, in Maryland. Kesserling disse di non aver mai saputo nulla della vicenda, ma in quei giorni si trovava a Bonassola! Del resto, se lo avesse ammesso, sarebbe stato fucilato come Dostler. Negli interrogatori anche Karl Wolff, capo delle SS e della polizia, e Siegfred Wetpkhal, capo di stato maggiore del quartier generale tedesco appaiono fumosi, falsi e cinici, come Kesserling.

Anche in questo caso l’indagine storica ci invita a non dimenticare e a non confondere vittime e carnefici, bene e male. Kesserling, responsabile delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema e di tante altre
stragi di innocenti come quella di Punta Bianca, fu condannato a morte, poi graziato, infine posto in libertà nel 1952. Non rinnegò mai il passato e disse che gli italiani avrebbero dovuto dedicargli un monumento. Ha valore perenne la poesia che il partigiano Pietro Calamandrei scrisse il 4 dicembre 1952:

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

Post scriptum:
Le immagini delle foto di oggi raffigurano la lapide in ricordo dei quindici caduti posta ad Ameglia, in piazza della Libertà, e i resti del presidio nazista di Punta Bianca. Ho scattato la prima foto nel 2021, la seconda
foto nel 2010. Sul fenomeno della diserzione tedesca rimando al mio saggio “L’internazionalismo nella Resistenza. Rudolf Jacobs e la diserzione tedesca in IV Zona Operativa”, www.patriaindipendente.it, 8 dicembre 2021.

lucidellacitta2011@gmail.com

foto in alto: Ameglia, piazza della Libertà, lapide in memoria dell’eccidio del 26 marzo 1944 a Punta Bianca (2021 – foto Giorgio Pagano)
foto in basso: Punta Bianca, resti del presidio tedesco (2010 – foto Giorgio Pagano)

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