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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Veramente sola!

Kemp

“Giosuè lasciò Bologna e l’università a due esami dalla laurea, la RAI l’aveva chiamato per fargli dirigere due documentari che lui aveva proposto, e non ha più ripreso gli studi, quel testone, sempre a inseguire i suoi sogni, di qua e di là, senza decidere mai “cosa fare grande”, e filando con tante belle ragazze, come suo padre, ma poi tornava sempre da me.

Prima di sposarsi, viveva con me; certo, ogni tanto doveva andare altrove, ma vivevamo insieme. Parlavamo, mangiavamo, ridevamo insieme. E quando era via tutte le sere mi telefonava. È stato in casa con me fino a trentadue anni.

La notte prima del suo matrimonio, in albergo, mi sentii malissimo, ci fu bisogno del dottore e di un paio di punture di voltaren, capii dopo che era perché quella volta tagliavamo definitivamente il cordone ombelicale che ci univa.

Lei si chiamava Clelia, era di Asti, aveva tre anni meno di lui, insegnava storia dell’arte in un liceo della città ed era una sostenitrice dei diritti civili. Si stava impegnando soprattutto in quel fenomeno che stava crescendo di anno in anno e che prima non s’era mai visto in Italia: l’immigrazione. I disperati che arrivavano dai paesi dell’Est e gli africani erano un fatto nuovo, e parte degli italiani si stavano scoprendo razzisti.

Una volta mi disse: « Ecco, non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. A conti fatti non si possono rimproverare. Non hanno mai avuto quello che abbiamo avuto noi. Il guaio è… che non ne riesci a trovare uno che sia onesto». Sbalordii. Lei, divertita dall’espressione che s’era disegnata sul mio viso, continuò: «Sa chi ha detto questa “bella” frase? Nixon, il Presidente degli Sati Uniti, e nel ’73, mica un secolo fa, e parlava degli italiani. Ora noi, che abbiamo mandato milioni di connazionali in tutto il mondo in cerca soltanto di una vita migliore e che sempre sono stati umiliati, con che cuore possiamo fare altrettanto verso queste persone che fuggono da miseria e guerre?»

Si erano conosciuti nell’autunno del 1984 a Torino, a uno spettacolo teatrale sulla vita di un danzatore russo, erano seduti per caso nelle poltroncine vicine. Entrambi erano andati da soli e adoravano quello strano regista inglese.

Due chiacchiere, lei era alta, magra, bella e con una criniera di riccioli scuri. Uscirono insieme.

Nei corridoi del teatro incrociarono quel ballerino, il regista pazzoide, non ricordo il nome, Chemp… una cosa così… che continuava a danzare come un folletto con la faccia tutta bianca di cerone e gli occhi cerchiati di nero, si fermarono per lasciarlo passare e applaudirlo ancora, lui prese il viso di Giosuè tra le mani, lo baciò sulle labbra lasciandogli lo stampo rosso del rossetto e si allontanò volteggiando. «Non mi laverò mai più la bocca» disse, lei rise e andarono a prendersi una cioccolata calda.

Si sposarono quattro anni dopo, a gennaio, in una brutta giornata nella bella chiesetta di San Nazario e Celso, a Montechiaro, su una collina, a una ventina di minuti da Asti.

Portammo anche lo zio Valè che aveva novantacinque anni e non entrò in chiesa ma ci disse, dopo avere guardato a lungo coi suoi occhi celesti, ormai velati abituati da sempre al bagliore e al luccichio del mare, quella vallata, fiabesca ma triste, inondata dalla nebbia: «Sa móó chi a scapo daa tomba! »*.

Entrai a braccetto a mio figlio, ero elegante e chi mi aveva truccato aveva fatto un buon lavoro, non si vedeva quanto stavo male.

Certo ero felice per lui, ma triste per me, forse più triste; perché questa volta rimanevo veramente sola.
Era il 1988, avevo sessantun anni, e quello stesso anno, con venti di contributi, ottenni la pensione di vecchiaia. Era una miseria e continuai a lavorare, anche per non stare a pensare troppo alla mia solitudine: a casa mi era rimasto solamente Valè.”

*«Se muoio qui scappo dalla tomba!»

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