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Luci della città

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Da Accattone a Salò, l’amore di vivere dentro le cose

di Giorgio Pagano

Roma, i murales di William Kentridge sui muraglioni del Tevere (2016) (foto Giorgio Pagano)

Nella foto sopra: Roma, i murales di William Kentridge sui muraglioni del Tevere (2016) (foto Giorgio Pagano)

A un secolo dalla nascita Pasolini continua a parlarci. Con le poesie, i romanzi, gli articoli. E con il cinema, a cui è dedicato l’articolo di oggi. A chi non ha mai visto i suoi film, questi non sembreranno datati. A distanza di cinquant’anni e più sono ancora vivi: non fuori dal tempo, ma nel nostro tempo. Ci sorprendono, ci sconcertano, ci scandalizzano come allora. In un’intervista a “Filmcritica” del gennaio-febbraio 1967 Pasolini disse: “Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. È una specie di ideologia personale, di vitalismo, di amore del vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà”. Fu questa la ragione della grandezza di Pasolini: oltre il talento, “l’amore di vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà”, l’amore di frequentare la sofferenza e la marginalità e di raccontarcele.
Cacciato dal Friuli a causa della sua omosessualità, Pasolini arrivò a Roma nel dicembre 1949, con l’amatissima madre Susanna Colussi. Poverissimo, si guadagnava da vivere alla giornata con collaborazioni letterarie a fogli giornalistici di ogni tipo e, tra le altre cose, fece la comparsa negli stabilimenti cinematografici di Cinecittà. Fu il suo primo contatto con il mondo del cinema. Poi, dal 1954, fece lo sceneggiatore: la sua prima occasione gliela fornì l’amico Mario Soldati. Allora il cinema era uno straordinario mezzo di comunicazione di massa, molto più di oggi. Pasolini decise di fare il regista sulla base di una riformulazione del proprio ruolo di intellettuale: un ruolo che diventava meno “aulico” rispetto a chi praticava la sola scrittura, e che significava la voglia di “scendere in campo”.

ACCATTONE
Il primo film da regista fu “Accattone” (1961), con Bernardo Bertolucci aiuto regista. Fu anche il primo film nella storia della cinematografia italiana ad essere vietato, con apposito decreto, ai minori di diciotto anni. Alla “prima” al cinema Barberini a Roma, un gruppo di neofascisti cercò di impedire la proiezione, lanciando bottiglie d’inchiostro contro lo schermo, bombette di carta e finocchi tra il pubblico.
“Accattone” è il soprannome di Vittorio Cataldi, un sottoproletario che abita nelle baracche dell’estrema periferia di Roma, il cui stile di vita è improntato al “sopravvivere” giorno per giorno. “Pappone” che si fa mantenere da una prostituta, ladruncolo, piccolo delinquente, cerca e trova per amore un lavoro onesto, che tuttavia soffre terribilmente: la via verso la “redenzione” è molto breve e “Accattone” torna a rubare. Dopo il furto di una motocicletta s’imbatte nella polizia: nel fuggire si schianta con una macchina e muore, compiendo così il suo tragico destino. “Ah, mo’ sto bbene”, sono le sue ultime parole.
La storia di “Accattone” e di altri “scarti” umani, condannati ai margini più remoti della società, si intreccia a quella degli interpreti: tutti attori non professionisti, veri abitanti delle borgate, a partire dal protagonista Franco Citti. Un mondo che Pasolini vede come latore di una residua purezza della socialità pre-borghese, cancellato dall’orizzonte del cinema italiano della società del “miracolo economico” secondo una mirata campagna di progressivo “genocidio antropologico e culturale”. Un mondo disperato: ogni tentativo di disobbedire al destino della propria condizione non può che concludersi con la morte, unica vera libertà concessa dalla società agli uomini che ignorano (come “Accattone”) o rifiutano (come Pasolini) le leggi del mercato che tutto domina. Vedendo la morte di “Accattone” non si può non pensare al destino che, di lì a quattordici anni, attendeva Pasolini a Ostia, dove fu ucciso e ridotto a “un sacco di stracci”, come disse un testimone oculare.
“Accattone” è il film della denuncia della mancata “rottura” dopo la Liberazione: cambiò il sistema politico, ma non quello economico-sociale, né quello culturale-ideologico. Per Pasolini la società della ricostruzione e del boom era “in perfetta continuità con il regime fascista”, perché prevedeva la omologazione di tutte le residue diversità. La sconfitta di Pasolini era già segnata fin dall’inizio. E in “Accattone”, come ha scritto Serafino Murri, “si addensa già tutto il cinema futuro di Pasolini”.

SALO’ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” è l’ultimo film di Pasolini. Girato nel 1975, l’anno della sua morte, uscì postumo il 10 gennaio 1976, e fu subito sequestrato per le “immagini aberranti e ripugnanti di perversione sessuale”. Dissequestrato e tagliato, il film tornò nelle sale il 10 maggio 1977. Il giorno seguente il cinema romano Rouge et Noir, dove si proiettava il film, fu assalito e devastato da un gruppo di neofascisti. “Salò” è un film estremo, una vera e propria aggressione visiva.
Quattro Signori, rappresentanti dei poteri della Repubblica Sociale Italiana, il Duca (potere di casta), il Vescovo (potere ecclesiastico), il Presidente della Corte d’Appello (potere giudiziario), e il Presidente della Banca Centrale (potere economico), incaricano le SS e i soldati repubblichini di rapire un gruppo di ragazzi e ragazze di famiglia antifascista; dopo una severa selezione, si chiudono con loro in una villa di campagna, arredata con opere d’arte moderna e presidiata da un manipolo di soldati nazifascisti. Con l’aiuto di Quattro Megere ex meretrici di bordello, instaurano per centoventi giornate una dittatura sessuale regolamentata da un puntiglioso Codice, che impone ai ragazzi assoluta e cieca obbedienza, pena la morte.
I pochi, veri gesti di insubordinazione sono gesti radicali compiuti da comunisti e puniti dai Signori con la morte. “Ciò che è scomparso – scrive Murri – è la solidarietà, la capacità della collettività prigioniera del potere di partecipare al dolore degli altri. Ogni tentativo di ribellione si profila in questo modo come via di fuga individuale, senza speranza, in un clima di perdita della memoria e sospensione della Storia”.
Il punto più avanzato della riflessione di Pasolini fu nell’affermazione del rapporto tra l’edonismo della nuova cultura e l’affermarsi di un nuovo potere. Fu lui che vide, prima di tutti, nelle viscere degli anni Settanta, i processi culturali che trionfarono negli anni Ottanta, all’insegna del passaggio dalla solidarietà all’egoismo. “Salò” racconta la mostruosità del potere fascista che usa i corpi a proprio piacimento, come fa il neocapitalismo mercificando i suoi stessi consumatori.
A metà degli anni Settanta la “religione delle merci” aveva definitivamente trionfato. Scrisse Pasolini:
“L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi ‘diverso’. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza”.

 

Roma, il Ponte Rotto sul Tevere (2017) (foto Giorgio Pagano)

 

Post scriptum:
Per un esame più compiuto della figura di Pier Paolo Pasolini rimando al mio articolo “Pasolini, la Resistenza, il ’68 e la critica alla ‘religione delle merci’”, www.patriaindipendente.it, 5 marzo 2022.
Si vedano inoltre:
“Il demone dello sviluppo e il demone del potere”, “Città della Spezia”, 3 gennaio 2016
“L’eredità di Pasolini nella ‘Profezia’ sull’Africa”, “Il Secolo XIX” nazionale, 2 novembre 2015, leggibile in www.associazioneculturalemediterraneo.com

lucidellacitta2011@gmail.com

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