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Sprugoleria

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Farindòmino, la casa delle ninfe e il latinorum degli Sprugolotti

Casa delle Ninfe

Ben si sa quanto l’idioma dei Padri risulti ostico all’orecchio degli Sprugolotti che del latinorum non ci mettono un attimo a storpiare le parole specie se a renderle incomprensibili concorre la lunghezza. Questo spiega la presenza nella nostrana parlata di un paio di termini, Farindòmino e Falindòmini, che traducono in sprugolotto le parole latine Nympharum Domus. Toponimo seducente, la Dimora delle Ninfe sta in una piacevole piccola valle che giace sotto il passo della Foce, riparata dal Parodi e da Marinasco. Ma, senza dimenticare che ci fu pure un tale che s’inventò
Ninfarindo, non si pensi che il Farindòmino nostrale sia nome antico ché in precedenza il posto lo chiamavano in altro modo. La denominazione che lo elegge ad abitazione delle Ninfe la si legge forse per la prima volta alla fine del Settecento, ma in precedenza aveva altri appellativi: da Barcho a Ciaza, parola questa che nello sprugolotto indica tanto la spiaggia che un posto pianeggiante.

Però, le denominazioni precedenti si sono presto dimenticate e la località è passata alla storia come casa delle Ninfe, nome che meglio rende la magia di questa fontana che sboccia da una caverna e che Madre Natura con duce a spasso per il bosco della Foce facendola saltare fra gli alberi e la roccia orlata dal muschio. Stava nel Settecento nella tenuta della famiglia patrizia degli Spinola. Chi vide cent’anni fa la grotta, annota che era chiusa da un muro sulla cui architrave era murata una modesta iscrizione in marmo che ne ricordava il nome, seppure abbreviato e con la i invece che la y. Comunque, il posto era tanto affascinante nella sua ferinità selvaggia che non poterono non sorgervi intorno le più disparate leggende.

La fantasia popolare vide nella spelonca della sorgiva la porta dee strie, delle streghe, e ben si sa quanto il buio attiri la paura quanto l’orrore. Ma ci fu anche una tradizione molto più dotta che volle che Vergilio, il grande poeta latino, si sarebbe ispirato proprio a questo antro per descrivere il luogo dove riparò Enea, il protagonista della sua epica, quando toccò con la sua nave la terra dove Didone era regina. Per la nostra landa che da sempre è povera di una sua saga, fu logico che cercasse qualsiasi appiglio per darsi una patente di nobiltà, ma i più dei commentatori hanno poi spiegato essere quella invenzione pura ché il luogo descritto dal poeta di Andes avrebbe potuto trovarsi da qualsia altra parte sul mare. Per la stereotipata che viene rappresentata, senza dimenticare la fantasia creativa di Vergilio, che non avrebbe avuto difficoltà ad inventarsi un panorama tutto sommato convenzionale.

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