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Quisquilie e meraviglie

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I veri proverbi – N.2

Gatto

Viveva una volta, in un piccolo paese sul mare, un signore che si chiamava Giuseppe ma, siccome non era molto alto, la gente lo chiamava Giuseppino. Giuseppino però era un nome un po’ tropo lungo per lui, i paesani allora accorciarono anche il nome e tutti cominciarono a chiamarlo Pino.
Questo signor Pino era uno zio ed aveva tre nipotini: Manuele, Viola ed Ettore di dieci, otto e sei anni. I nipotini erano furbi e svelti come tutti i bambini di quell’età ed erano gli unici a sapere che lo zio Pino non era per niente quel brav’uomo che tutti pensavano che fosse.
No, lo zio Pino era invece una persona cattiva, maligna. Si divertiva un mondo a fare scherzi tremendi a tutti quanti e poi era abilissimo a far ricadere la colpa sugli altri, a volte proprio su Viola, Manuele ed Ettore.
Lo zio Pino ad esempio si divertiva a scambiare il barattolo del sale con quello dello zucchero, così succedeva che il caffè con il sale prendeva il sapore del veleno per topi andato a male e chi lo beveva doveva per forza sputarlo subito e spesso sulla faccia di chi gli era davanti.
A volte incollava le pantofole della nonna al pavimento della camera da letto, così, quando lei si alzava al mattino per andare in bagno, i piedi restavano fermi e lei cadeva lunga e distesa con il naso spiaccicato per terra.
Altre volte si divertiva a rovesciare i vasi e a calpestare i fiori e poi dava la colpa ai cani e ai gatti dei vicini e lo faceva con un’aria così seria che era impossibile non credere che fosse sincero.
Se la prendeva spesso con gli animali, era la cosa che lo divertiva di più, insieme a far scoppiare con uno spillo i palloncini tra le mani dei bambini.
Gli piaceva, ad esempio, legare con lo spago dei vecchi barattoli di latta alla coda dei cani per poi stare a guardare quei poveri animali che fuggivano terrorizzati dal rumore che le lattine facevano rimbalzando dietro di loro. Ma più correvano più il rumore aumentava, più il rumore aumentava più loro correvano, finché non crollavano a terra senza fiato, con la lingua penzoloni e gli occhi strabuzzati.
Altra cosa che lo divertiva molto era spalmare il mastice sui rami degli alberi e poi metterci sopra qualche briciola di pane in modo che quando gli uccellini si posavano, ringraziando con il loro allegro cinguettio chi aveva lasciato quel cibo, rimanevano prigionieri di quella trappola collosa e, per quanti sforzi facessero, non riuscivano più a spiccare il volo.
Per fortuna i nipotini arrivavano sempre in tempo e li liberavano scollando delicatamente dai rami le loro zampette.
Insomma, non si sa per quale motivo, ma gli animali gli stavano proprio antipatici. Era proprio contento quando poteva combinargliene una delle sue.
Appena gliene capitava uno sotto tiro, cane, uccello, lucertola che fosse, subito pensava a come poteva divertirsi ai danni di quella povera bestiola.
Figuratevi quindi cosa gli passò per la testa quando un pomeriggio i nipotini portarono a casa una vecchia gatta tutta bianca che avevano trovato bagnata e infreddolita tra le barche del molo e chiesero a mamma, papà, nonna e zio di poterla tenere.
Lo zio Pino cercò in tutti i modi di non farla accettare in casa. Disse che poteva avere le pulci, che avrebbe graffiato le tende e lasciato peli dappertutto. Tutte cose che potevano anche esser vere ma che lui diceva sperando gli permettessero di riportar via la gatta perché, infatti, gli sarebbe davvero piaciuto pitturarla di giallo a pallini viola, metterla su una boa della baia e stare a guardare le facce che avrebbero fatto i pescatori vedendola.
Invece la gatta venne adottata. I nipotini s’impegnarono a darle da mangiare, a tenerla pulita e a stare attenti che non combinasse guai. E così, da quel momento, iniziò la guerra segreta tra la gatta e lo zio Pino.
La gatta, come tutti gli animali, aveva una sensibilità speciale per riconoscere l’animo delle persone e capì subito che di quell’ometto, con la faccia simpatica e il sorriso sempre stampato sulle labbra, era meglio non fidarsi.
Così gli girava accuratamente alla larga, specie quando rimanevano soli in casa. Ma nonostante la gatta stesse attenta, lo zio Pino ogni tanto metteva a segno qualche colpo ai danni della povera bestiola che però, prima o poi, riusciva sempre a prendersi la rivincita.
Una sera lo zio Pino riuscì a mettere di nascosto tre cucchiai di pepe nella scodella del cibo della gatta e quando questa, dopo averlo annusato, sembrò rifiutare lui disse: «Ecco, questo è il ringraziamento per tutto quello che facciamo per lei. E pensare che ci sono tanti poveri mici randagi senza casa e senza mangiare.»
Così la gatta, per non passare da ingrata, mangiò tutto quanto. Poi però quasi prosciugò il ruscello per spegnere le fiamme che si sentiva in gola mentre lo zio Pino la guardava ghignando dalla finestra della sua stanza.
Quella stessa notte lo zio Pino si svegliò con l’impressione di avere un peso sullo stomaco. Accese la candela che aveva sul comodino di fianco al letto, si stropicciò gli occhi e subito lanciò un urlo di terrore gettandosi giù dal materasso.
Si era trovato davanti al naso i dentoni gialli di un topaccio enorme che dimenava coda e zampette, prigioniero della gatta che lo teneva addentato forte per la collottola.
Inutile dire che un attimo dopo l’urlo la gatta era già saltata fuori dalla finestra aperta portando con sé la sua preda, così, quando arrivarono i parenti richiamati dalle grida dello zio Pino, non trovarono nulla e pensarono che avesse fatto un brutto sogno. Tanto più che poco dopo trovarono la gatta che dormiva beata sulla sua coperta nella camera dei bambini, dove la furbastra s’era precipitata appena saltata dalla finestra.
Lo zio Pino fece finta di niente e disse che forse era stato proprio un incubo, ma non la digerì!
Giurò a sé stesso di vendicarsi in modo terribile e così, una mattina che era solo in casa, mise delle acciughe in un sacco e lo posò fuori dalla porta. La gatta sentì l’odore del pesce, si guardò bene bene attorno e, non vedendo nessun pericolo, entrò nel sacco.
Lo zio Pino saltò fuori dal suo nascondiglio e la chiuse dentro in quattro e quattr’otto. Si buttò il sacco sulle spalle e corse alla scogliera a picco sul mare. Qui legò il sacco ad una corda e lo calò fino a metà del burrone, fissò la fune ad una radice e se ne tornò a casa fischiettando.
Era proprio una vendetta terribile: anche se la gatta fosse stata capace di uscire dal sacco non avrebbe potuto far altro che precipitare in mare e lui non l’avrebbe mai più rivista in ogni caso.
Con questi bei pensieri che lo facevano sorridere felice entrò in casa. Ma una saetta bianca gli taglio la strada facendolo inciampare e stramazzare per terra. Era la gatta!
Ma come aveva fatto a liberarsi e a tornare a casa prima di lui?
Presto detto: al maestro di Manuele era venuto il mal di denti e aveva mandato a casa la scolaresca prima del solito. Tornando a casa Manuele aveva visto lo zio Pino correre sulla scogliera con un sacco sulle spalle. Lo aveva seguito e spiato senza farsene accorgere e aveva poi recuperato la corda con il sacco scoprendo che dentro c’era la gatta spaventatissima. Poi erano rientrati di corsa a casa per una scorciatoia e qui la gatta s’era messa ad aspettare al varco lo zio Pino per fargliela pagare almeno un po’.
Lo zio Pino non credeva ai suoi occhi. “Basta” pensò “Non è possibile che una vecchia gatta possa farla ad uno come me!”
Decise così di liberarsene definitivamente. Alla prima occasione se ne sarebbe sbarazzato senza pietà.
L’occasione si presentò sei giorni dopo. In paese arrivò il circo e tutta la famiglia vi si recò, compreso lo zio Pino che però, appena gli fu possibile, sgattaiolò via e tornò a casa in tutta fretta.
Qui, senza perdere tempo, prese con un retino la gatta che dormiva e la buttò dentro un sacco, poi si diresse alla marina, salì su una barca e remò velocemente verso il largo.
Vogò, vogò e vogò.
Ormai la costa non era che una sottile striscia grigiastra. Arrivato nei pressi di uno scoglio triste e solitario lo zio Pino smise di remare. Raccolse il sacco e fece per scagliarlo su quella roccia dimenticata da Dio.
Ma la gatta intanto, con le unghie e con i denti, aveva fatto un buco nella tela del sacco e, quando si sentì sollevare, saltò in testa al suo nemico.
Seguì una lotta tremenda.
Graffi, pugni, morsi e calci, ma alla fine fu lo zio Pino a ritrovarsi in mare. Tentò cento volte di risalire a bordo ma non ci riuscì. Infine, stremato, si aggrappò allo scoglio su cui voleva abbandonare la sua vittima e ci si arrampicò.
Intanto la corrente spingeva piano piano la barca con la gatta verso il porticciolo dalla quale era salpata. A notte fonda la gatta era a casa, dalla finestra aperta saltò nella camera dei bambini, si accoccolò sulla sua coperta e si addormentò.
Lo zio Pino invece restò su quello scoglio due giorni e due notti, e si beccò pure un temporale.
Infine lo salvò un peschereccio.
Ed è da questa vicenda che è nato il vero proverbio: Tanto va la gatta al largo, che ci lascia lo zio Pino.

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