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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

I veri proverbi – N.1

Mappa Africa Antica

Tanti anni fa l’Africa era un continente completamente sconosciuto. Esistevano poche mappe e queste riguardavano solo le coste e i territori che si trovavano lungo il corso dei grandi fiumi. Per il resto circolavano solo voci e niente si sapeva con certezza. Si narrava di foreste di smeraldo e deserti con sabbie d’argento, di animali fantastici e divinità terribili, di giganti assetati di sangue e stregoni minuscoli e malefici. Era il periodo dei primi grandi, eroici esploratori. Gente strana che, forse per amore di avventura e sete di sapere, lasciava a casa comodità e affetti per recarsi in paesi selvaggi e misteriosi ben sapendo di andare incontro ad ogni sorta di pericoli: indigeni ostili e belve feroci, ragni velenosi e febbri malariche, fame, sete, serpenti e cannibali. Cosa li spingesse nessuno lo sa, forse il fascino che l’ignoto da sempre esercita su ognuno di noi, o forse il miraggio di facili guadagni. Fatto sta che le partenze si susseguivano. Viveva in quei tempi in una città di mare, dalla quale spesso partivano queste spedizioni, un certo Vespasiano Racato. Era un tipo particolare: grasso, avido, arrogante, presuntuoso, subdolo e cattivo. Si credeva più il più furbo di tutti e tentava sempre di imbrogliare il prossimo, ormai non aveva più neanche un amico. Sembrava avesse una sola passione: le storie che i marinai raccontavano nelle osterie del porto. Ma non era per spirito di avventura che stava ad ascoltare, no davvero!

Voleva sapere il più possibile su quelle terre e sugli indigeni perché aveva un sogno segreto. Scoprire il leggendario paese dei Balicannì per raggirare i suoi ingenui abitanti barattando cianfrusaglie in cambio di oro, perle e pietre preziose di cui, si favoleggiava, fossero ricchissimi. Già vedeva il suo ritorno a casa: lui, ricco sfondato, che attraversava due ali di folla timorosa con un seguito di schiavi guardando tutti dall’alto in basso dalla groppa di un elefante. Era solo per questo che ascoltava quelle storie, per bramosia e sete di potere. Aveva da parte un po’ di soldi. Era il denaro che i suoi poveri genitori volevano lasciare all’ospizio degli orfanelli, ma lui aveva stracciato il testamento e se li era tenuti. Ed ora, ritenendo di saperne abbastanza dell’Africa e dei Balicannì, spese tutto per realizzare la spedizione che, ne era certo, l’avrebbe reso ricco, potente e invidiato. Si comprò un completo da esploratore, un fucile a tromboncino e un grosso zaino che riempì di specchietti, bottoni, perline e svariate altre chincaglierie. Per averne di più e spendere meno ebbe anche la faccia tosta di chiedere roba scheggiata o proprio rotta. A vederlo così conciato sembrava fosse in procinto, non solo di scoprire un nuovo continente, ma
anche di conquistarlo di persona!

Prenotò un posto branda su di un veliero che, essendo diretto in India, doveva far scalo per rifornirsi di acqua alla foce del fiume Congo dove era sorto una specie di campo base per tutte le esplorazioni che si avventuravano all’interno del continente nero, ed era proprio da lì che Vespasiano intendeva iniziare la sua avventura. Quando la nave salpò si prese subito la migliore cuccetta e, per tutto il viaggio, con fare altezzoso, non rivolse la parola a nessuno salvo che per offendere ora questo ora quel marinaio. Si rese così simpatico che fu un miracolo se non lo buttarono fuoribordo ancor prima di passare Gibilterra. Finalmente il veliero arrivò alla foce del Congo. Alcune scialuppe vennero calate in mare e i marinai andarono a riempire le botti di acqua fresca. Da una di queste scialuppe sbarcò, col suo gran zaino sulle spalle, il signor Vespasiano Racato amichevolmente accompagnato dalle parole di commiato di tutto l’equipaggio, che non essendo esattamente composto da personcine fini e
raffinate, evito di riportare per motivi di pubblica decenza. Appena sceso a terra, come tutti i viaggiatori che sbarcavano da quelle parti, venne preso d’assalto da un nugolo di ragazzini che chiedevano solo di rendersi utili in cambio di qualche
spicciolo. Racato fu rapidissimo ad acchiapparne quattro o cinque per i capelli e quando, dopo averli costretti a parlare, ne trovò uno senza neanche un parente, per cui non rischiava niente, lo obbligò a suon di sberle a fargli da guida e da portatore.
Fecero provviste e si avviarono subito verso terre in cui nessun bianco s’era mai avventurato.

Anche il ragazzino, che si chiamava Mugambi e aveva dieci anni, non s’era mai addentrato in quei posti, ma quel farabutto di Vespasiano, che per timore che gli scappasse lo teneva legato per il collo, gli aveva ordinato di portarlo nel paese dei Balicannì, e così, per evitare altre botte, stavano inoltrandosi in territorio tabù, dove neppure la sua gente, da secoli, osava mettere piede. Camminarono per settimane, ormai erano sfiniti. Mugambi ormai non sperava più di trovare quella leggendaria tribù che, si narrava, abitasse nel folto della foresta. Dal canto suo Vespasiano s’era convinto che quel piccolo furfante riccioluto, al quale molto generosamente donava parte delle sue vivande, lo avesse condotto in quell’inferno verde solo per prendersi gioco di lui. Così, per ogni giorno che passava, gli dimezzava il cibo e gli raddoppiava i calci. Ormai aveva deciso di rinunciare. Stava per mettere in atto il piano per il ritorno, aveva cioè, intenzione di legare ad un baobab quel mangiapane a tradimento di Mugambi e di tornare indietro seguendo i segni che aveva inciso sui tronchi degli alberi, quando ecco sbucare un pigmeo con una grossa lancia, poi un altro e un altro ancora. In breve Vespasiano e la sua guida furono circondati da guerrieri con il viso dipinto ed espressioni tutt’altro che amichevoli.

Vespasiano le provò tutte per non farsi catturare; nel senso che si mise subito a piangere dicendo che era stato Mugambi ad obbligarlo con la forza ad entrare in quel territorio e che lui non ci voleva venire, spingeva avanti il ragazzo e cercava di nascondercisi dietro, si strappava i vestiti e si rotolava per terra chiedendo perdono. Ma fu tutto inutile, gli dissero che erano giorni che li spiavano e che sapevano bene come stavano le cose; quindi, lo legarono mani e piedi ad un palo, i due più forzuti appoggiarono le estremità sulle spalle e, come fosse un grosso maiale, lo portarono cantando al loro accampamento. Mugambi li seguiva col grosso zaino sulle spalle cantando pure lui. Arrivati al villaggio, che sorgeva in una radura vicino ad un bellissimo ruscello, il signor Racato venne sciolto, spolverato e condotto dinnanzi al Re, alla Regina e alle loro sette figlie. Tutto il resto della tribù si mise attorno in circolo. Il Re era la persona più piccola che Vespasiano avesse mai visto, era cicciottello e aveva denti canini così lunghi che faticavano a restar nascosti dietro le labbra. Gli chiese chi fosse e per quale motivo avesse invaso il loro territorio. Vespasiano non aveva mai smesso di piagnucolare ma quando si accorse che tutti quanti avevano splendidi gioielli d’oro sparsi su tutto il corpo, riprese un po’ della sua tracotanza. Aveva capito di esser giunto nel leggendario regno dei Balicannì!

Di colpo si inginocchiò fino a sbattere la fronte per terra e disse: “Oh grande Sovrano, io non sono che un verme schifoso indegno anche solo di essere ammesso alla Vostra celestiale presenza, ma sono anche un onesto mercante e vengo da molto, molto lontano. Ho attraversato oceani e scalato montagne per poter portare a Voi, graziosa Maestà, dei meravigliosi, costosissimi prodotti che, nelle terre aldilà del mare, si possono permettere solo i più grandi imperatori. La voce della Vostra generosità e del Vostro buon gusto hanno varcato i confini del Vostro stupendo, vastissimo reame. È solo per questo che ho rischiato la mia inutile vita per portare a Voi il meglio del meglio, perché solo Voi, e i Vostri deliziosi sudditi, potete apprezzare la rarità e la mirabile bellezza di questi preziosissimi oggetti”. Detto questo in un lampo tolse lo zaino dalle spalle di Mugambi, che era lì vicino con la bocca spalancata, esterrefatto per quello che sentiva uscire da quella bocca bugiarda, e ne rovesciò il contenuto davanti al trono. Dallo zaino uscirono centinaia di oggetti colorati e lucenti: spille da balia, coltellini a serramanico, specchietti, lenti, pettinini, forbici, ritagli di stoffa, dadi truccati, scatolette di metallo, trottole, matite, maniglie, gessetti, chiodi, gomitoli di lana, cinture, fiammiferi, false pietre preziose e tantissima altra roba che, anche se di seconda scelta, quegli indigeni non avevano mai visto.

Gli abitanti di quei luoghi, come aveva ben previsto quel farabutto del signor Racato, erano veramente degli ingenui e, il Re per primo, volevano barattare quella paccottiglia in cambio di bracciali, anelli e collane d’oro. Vespasiano non stava più nella pelle, per ogni oggettino da due soldi riceveva in cambio un gioiello che in patria valeva milioni. Il suo sogno si stava avverando, stava diventando ricco sfondato! Mugambi fremeva di rabbia nel vedere come quell’uomo così cattivo imbrogliava, con un falso sorriso sulle labbra, quei semplicioni dei Balicannì. Ma non c’era nulla da fare, erano curiosissimi e tutto quanto andava a ruba. C’erano perfino dei litigi quando in due desideravano l’ultimo esemplare della stessa mercanzia. Spesso non sapevano neppure a cosa servisse l’oggetto delle loro brame e non era raro vedere qualcuno con delle mollette a mo’ collana intorno al collo, con un lucchetto usato come orecchino o passeggiare beato con una cravatta al polso e delle mutande in testa. Il Re, che era stato il primo a mettere le mani nel mucchio delle cianfrusaglie, aveva scelto un cavatappi, un mazzo di carte da gioco al quale mancavano il due e il sette di fiori e un paio di calzettoni gialli. Per queste cose, il subdolo Vespasiano, non volle niente in cambio perché, pensò, è sempre meglio tenersi buono chi comanda, soprattutto se ha lunghi e aguzzi denti canini. Le figlie del Re s’erano accaparrate delle grosse palline di vetro che sembrava avessero dentro i colori dell’arcobaleno. Erano belle davvero e quando un raggio di sole le colpiva era come se si accendessero, illuminando chi le teneva in mano con un piccolo arcobaleno privato.

Sembravano magiche e fatte apposta per delle principesse. Ma ecco sorgere un problema. Le palline erano sette, proprio come le figlie del Re, ma pure la Regina ne voleva una. Iniziò a piangere e a urlare. Il Re promise a Vespasiano qualsiasi cosa in cambio di un’altra pallina, ma quello, dopo essersi assicurato che lo zaino fosse stipato d’oro disse, tornando al suo fare da gradasso, che non ce n’erano più. Allora il Re perse un pochino la calma, anche perché quella più che piangere urlava, e urlava proprio nelle sue orecchie, e disse che loro lo avevano trattato con riguardo e non meritavano quel tono. Vespasiano non lo guardò nemmeno, mise lo zaino in spalla e disse che forse a casa ne aveva ancora una. Andava di corsa a prenderla sarebbe tornato l’indomani. Si, avrebbe portato la pallina domani. A questo punto il Re dei Balicannì, che era sì ingenuo ma mica scemo, si rese conto che l’uomo che aveva di fronte, oltre a voler fare un po’ troppo il furbo, era anche bello grasso. Gridò alla Regina di finirla di far tutte quelle storie per una pallina, poi fece chiamare il cuoco di corte e gli ordinò un banchetto speciale al quale anche il signor Racato fu invitato, sì… Come piatto principale. E fu quella la prima ed unica volta in vita sua in cui non lo definirono un uomo cattivo. Anzi, lo trovarono davvero buono, qualcuno arrivò a dire: squisito.
Ed è da questa storia che è nato il vero proverbio: Meglio un uomo oggi che una pallina domani.

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Il racconto di Lerici (anzi, Abeti) negli anni trenta, edizione italiana per l’opera di Kalenter