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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

E Cosimina salì al Nord

Cosima, Cosimina, Mimina, Mina, questa l’evoluzione del nome di Gigante Cosima, figlia di Giuseppe e Agata Bembo, nata a Brindisi nella primavera del 1927. Penultima di nove sorelle – il decimo, Teodoro, l’unico maschio, morì piccolino a neanche un anno e il dottore non seppe neanche lui spiegare il perché – trascorse l’infanzia e l’adolescenza prima e durante l’ultima guerra nei vicoli del centro storico. Visse una gioventù povera anche se il padre guadagnava bene, era interprete al porto, ma lo stipendio lo buttava via ai tavoli da gioco.
Il giorno di paga le figlie e la mamma lo aspettavano con ansia, sperando finalmente in un buon pasto e pregavano una sorta di litania: “San Ghiatoru San Ghiatoru, teni li uecchi comu lu iattu, fani viniri papà*”. Invece veniva buio, e lui non rientrava.
A volte mandavano Mina a cercarlo nei soliti bar, e quando riusciva a trovarlo lui la allontanava con un sorriso e una carezza dicendole che sarebbe rientrato presto. Se lei insisteva pregandolo lui si arrabbiava e la avvertiva con gli occhi che diventavano cattivi: “Non farmi fare brutta figura davanti ai miei amici”, e a Mina non restava che rientrare a casa mordendosi le labbra per non piangere, ma tanto le lacrime uscivano lo stesso.
Praticamente senza cena si addormentavano. Solo a notte fonda il padre rincasava e chissà per quale sorta di sadismo, o masochismo, le svegliava una per una per darle un bacino e poche caramelle, unico avanzo del lavoro di settimane lasciato sulle carte. La moglie si voltava dall’altra parte nel letto, ormai non si lamentava neanche più. Lui era un brav’uomo, solo che quella “malattia” era più forte di lui.
A Mina non piaceva andare a scuola, preferiva gironzolare per la città o il porto o in riva al mare. Quando la madre lo veniva a sapere, perché un compagno di classe che abitava lì di fronte faceva la spia, erano botte, di quelle vere, con una frasca di olivo che conservava apposta per le sue gambe; e a Mina, magra e svelta come una lucertola, non restava che scappare sui tetti e sperare che la buriana passasse presto.
Gli anni sfilavano tutto sommato in fretta, Mina smise di andare a scuola, e mai la rimpianse abbastanza; due sorelle si sposarono per uscire di casa e il padre continuava a perdere la paga nei caffè.
Nel 1940, quando anche l’Italia entrò in guerra, Brindisi divenne uno dei bersagli preferiti per le incursioni dei cacciabombardieri alleati, compirono ventuno attacchi prima della fine dell’anno, e il ‘41 fu anche peggio. La città subì bombardamenti continui, soprattutto a novembre, il più intenso fu nella notte tra il 7 e l’8, iniziò a mezzanotte e durò più di cinque ore. Gli obiettivi dei bimotori che venivano da Malta erano le fortificazioni del porto, le batterie militari lungo la costa e la base navale. Poco prima di quell’attacco un vasto incendio, certamente acceso da sabotatori inglesi, si era scatenato nei depositi di fieno di una masseria, le fiamme illuminarono gran parte della città e avrebbe quindi dovuto essere facile per gli aerei individuare i loro bersagli.

Mina Brindisi

Invece colpirono le abitazioni, e le devastarono.
Tutta l’area di via Cittadella fu rasa al suolo, vi furono decine di vittime e centinaia di feriti. Furono colpite anche le cantine di via Osanna. Mina non scordò mai più il fiume di vino rosso come il sangue che scorreva per le strade e nel quale i suoi piedi nudi affondavano mentre correva terrorizzata verso il rifugio. A mezzogiorno si contarono più di quaranta morti e ottanta feriti. La famiglia del suo povero compagno di scuola, quello che faceva la spia e che viveva nella casa dirimpetto, fu sterminata, tutti e sette morirono sotto le macerie.
Dopo quella terribile notte più della metà dei brindisini si trasferirono nelle campagne circostanti o nei paesi dei dintorni. Mina con le sorelle più piccole e la mamma andarono a Parabita, ospiti di alcuni parenti in una casettina di campagna. E fu lì che cadde da un granaio in costruzione sul quale s’era arrampicata per raccogliere qualche fico di San Giovanni dai rami più alti che ne sfioravano il tetto, sbatté la testa e rischiò di morire, ma si salvò restando però quasi sorda dall’orecchio sinistro.
Un anno dopo, sempre di novembre, rientrarono a Brindisi, Mina era diventata ormai una ragazza, carina, tutta occhi e capelli neri, lavorava un po’ in giro per portare a casa quattro soldi o roba da mangiare, a volte anche in una mensa di soldati tedeschi che coi loro sorrisi, sguardi e apprezzamenti, che rare volte riusciva a comprendere, cominciarono a farle capire che non era più una bambina.
A fine luglio del ‘43 gli alleati sbarcarono in Sicilia, nelle settimane successive in città si respirava un’aria nuova e confusa, nessuno capiva quello che poteva accadere. L’8 settembre il Re e Badoglio lasciarono Roma, il 10 sbarcarono nel porto – i tedeschi se n’erano appena andati – e annunciarono alla radio che Brindisi era la nuova capitale del Regno, un regno che controllava soltanto i territori dall’Abruzzo in giù, tutto il resto era nella mani delle armate tedesche e Mussolini.
Primo atto fu quello di dichiarare ufficialmente guerra alla Germania, per due motivi: la pia illusione di poter essere considerati alla fine della guerra alleati dei vincitori e, soprattutto (forse), per consentire ai settecentomila soldati deportati nei lager per non avere aderito a Salò, di venire considerati prigionieri di guerra e non fucilati quindi come traditori.
Brindisi fu sede del governo fino al febbraio del ’44 e a Mina, a questo punto una bella signorina di diciott’anni, piaceva molto sentirsi una giovane cittadina della capitale del Regno.
Le sue sorelle, una alla volta, se ne andavano di casa. Alcune si sposavano, altre invece facevano vere e proprie fughe d’amore con inseguimenti, urla, schiaffi, pianti, straordinarie sceneggiate alla stazione, corse lungo i binari e vani e buffi tentativi di fermare i treni.
Due mesi dopo la fine della guerra anche Mafalda, detta Tetta per fin troppo evidenti motivi, la preferita tra le sue sorelle, scappò con Angelo, un marinaio che aveva fatto il militare su un dragamine nel porto, e andò a stare a Pitelli, il tranquillo paesino di lui, sopra La Spezia.
Lì si sposò e, dopo aver ricevuto il perdono di mamma e papà per la “fuitina” e la nascita ad aprile del primo figlio, la mandò a chiamare perché era rimasta subito di nuovo incinta e col bambino così piccolo aveva proprio bisogno di una mano, e anche perché lì la vita forse era un pochino meno grama che a Brindisi.
Così Mina, a diciannove anni, prese la prima importante decisione e, con la benedizione dei genitori, nel novembre del 1946 si imbarcò su un treno e salì al nord.
Venne a vivere nel Golfo, conobbe il suo uomo e qui visse tutta la sua intensa-triste-meraviglio-straordinaria-normalissima vita di donna coraggiosa e forte e bella. Era mia madre.

*”San Teodoro San Teodoro, che hai gli occhi come il gatto, fati tornare papà”