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Dopo la firma per il referendum

Eutanasia, Don Mignani: “La vita è sacra, ma occorre una legge per coloro che soffrono senza via d’uscita”

“Il coraggio di essere liberi” è il motto di don Giulio Mignani, parroco di Bonassola, già sotto i riflettori della cronaca per le sue coraggiose prese di posizione e idee, in forte contrasto con le gerarchie della Chiesa cattolica di cui fa parte. Dopo la bufera scaturita in diocesi a seguito delle sue dichiarazioni in merito alla benedizione delle coppie omosessuali, don Giulio si pronuncia a favore di una legge sull’eutanasia, aderendo al referendum che si è svolto in tutte le città italiane da luglio a fine settembre. “Sono consapevole che rischio conseguenze e provvedimenti, ma se queste sono le cose in cui credo e che ritengo siano giuste, allora dico che ne vale la pena”: non si fa da parte il parroco di Bonassola, portando avanti le proprie battaglie, contro una chiesa “non evangelica” e che, nella sua prospettiva di futuro, rischia di diventare sempre più anacronistica e marginale.

È uscita ieri su “la Repubblica” di Genova la notizia secondo cui lei ha firmato per il referendum per l’eutanasia legale. Già in passato si era esposto pubblicamente su questo tema. Potrebbe spiegare la sua posizione?
“In realtà la firma risale ad agosto, momento di raccolta firme per la possibilità di fare il referendum per depenalizzare il reato di omicidio del consenziente. Dopo il caso di dj Fabo la Corte costituzionale aveva chiesto una legge al riguardo: sono passati due anni e il disegno di legge è arrivato in commissione Giustizia e affari sociali della Camera, anche se mi sembra che non ci sia purtroppo un vero desiderio di affrontare l’argomento, viste le poche persone presenti in aula ieri. Penso che ci sia l’urgenza di avere una legge al riguardo: cerco di immedesimarmi nella situazione di coloro che soffrono, con un grido di dolore, senza la possibilità di via di uscita. Sarei contento se ci fosse una legge che mi lasciasse la possibilità di avere due strade aperte. Sia chiaro, io non ho paura della morte, proprio perché per la mia visione di fede si tratta di un passaggio, però ho paura del morire, ossia nel modo in cui arrivo alla morte. Se c’è una legge che mi permette di arrivare al momento della morte in maniera più dignitosa sarei più sereno. Qualcuno potrebbe dire che la buona morte è quella che rispetta i tempi e i modi della natura, sofferenza compresa, però mi chiedo: è veramente lecito decidere a tavolino quando si tratta di morte buona oppure no? Bisogna rispettare le sensibilità di ciascuno e di tutti. Questa mia posizione non proviene da una visione materialista della vita, come una cosa da usare a proprio piacimento: tengo a chiarire che per me la vita è e rimane sacra”.

Un sacerdote che non ha paura di dissentire e di prendere le distanze dalla Chiesa cattolica a cui appartiene: cosa la spinge ad andare “in direzione ostinata e contraria”?
“Io penso che paradossalmente questo sia un insegnamento che mi ha donato la Chiesa stessa, quello di mettere al primo posto la propria coscienza. Quante volte la Chiesa richiama all’obiezione di coscienza? Io credo che le norme che la Chiesa propone hanno bisogno di essere superate e sento il dovere di dirlo. Sono consapevole che il mio pensiero possa comportare anche delle decisioni forti da parte della gerarchia, ma è anche vero che nel lungo cammino della Chiesa ci sono state persone che hanno pagato con la propria pelle le loro prese di posizione, lanciando però dei semi che sono cresciuti nel tempo”.

La sua figura è diventata centrale nella cronaca nazionale quando si è espresso a favore per la benedizione delle coppie omosessuali. La chiesa è evangelica con le coppie gay, i discriminati e gli ultimi?
“Secondo me no, ed è anche questo che mi porta pubblicamente a prendere determinate posizioni. Non credo sia evangelica e non ho paura a dirlo: Gesù al suo tempo non ha mai avuto dubbi se mettere in primo piano le leggi, le regole oppure il bene delle persone. Non credo sia evangelico lasciare che delle persone soffrano, perché di questo si tratta quando si è discriminati ed esclusi”.

La curia spezzina spesso ha preso le distanze dalle sue dichiarazioni e prese di posizione. Teme che ci saranno ripercussioni?
“Paura assolutamente no. Pensiamo a Gesù, il quale sapeva che portando avanti certe posizioni si sarebbe ritrovato con tanti nemici, sia sul piano religioso che politico. Sapendo questo però non si è tirato indietro, per portare avanti le sue idee fino in fondo, perché lo riteneva giusto. Non voglio avere la presunzione di paragonarmi a Gesù, sono consapevole che rischio conseguenze e provvedimenti, ma se queste sono le cose in cui credo e che ritengo siano giuste, allora dico che ne vale la pena. Riprendendo il tema delle persone omosessuali: molti non capiscono che sono persone che soffrono, e ogni ritardo, ogni ostacolo che viene posto, aumenta ancora di più la loro sofferenza. Se devo pagare e subire delle conseguenze affinché la loro sofferenza finisca, questo non mi spaventa”.

In vista e in prospettiva del nuovo sinodo, c’è la possibilità di conciliare la sua visione e le sue idee con quelle della Chiesa?
“A dire il vero io in questo senso sono un po’ pessimista: il sinodo è certamente una cosa bellissima, come idea e come progetto, ossia l’affrontare assieme, anche con l’ascolto della base, molte problematiche ai giorni nostri. Ci vuole però la volontà: io mi accorgo che sia il metodo che la volontà siano limitate. Analizziamo il metodo: le idee della base, passando dal vicariato, al livello diocesano, poi a quello regionale e nazionale, rischiano di annacquarsi. Forse converrebbe fare un sondaggio attraverso istituti seri: chiedere alle persone e sentire cos’hanno da dire, specialmente coloro che si sono allontanati dalla Chiesa e capire i motivi del loro allontanamento. Sull’intenzione io percepisco, anche all’interno delle mia parrocchia, che non si tenda a credere ad un cambiamento, bensì sia maggioritaria l’idea e la convinzione che tutto rimarrà così com’è. Se si parte già da questa prospettiva il sinodo rimane solo un’occasione per ascoltarci, ma non per mettere in pratica degli effettivi e concreti cambiamenti. È per questi motivi che non ho grandi aspettative.

Cosa si aspetta dalla Chiesa del futuro? O meglio: la chiesa di oggi riuscirà a rimanere al passo con i tempi oppure diventerà qualcosa di anacronistico?
“Il rischio che la Chiesa diventi qualcosa di anacronistico è concreto e sempre più vicino. Molti cambiamenti sono avvenuti nel corso dei secoli, ma sempre in ritardo. Mi piacerebbe che la Chiesa diventasse apripista, che fosse profetica, in grado di trascinare e portare avanti dei cambiamenti di civiltà necessari. Non so se ci vorrà un secolo o più affinché la Chiesa cambi per davvero, però il problema è che qualsiasi cambiamento arriva sempre in ritardo sulla pelle delle persone, che nel frattempo soffrono e continuano a soffrire. Invece adesso la Chiesa sta diventando sempre più un gruppo ristretto di persone, soprattutto di una certa visione tradizionalista, lontana e ostile ai cambiamenti. Nel Vangelo c’è la parabola delle novantanove pecore: il pastore che abbandona l’intero gregge per andare alla ricerca della pecora smarrita. Ora la situazione sembra essere capovolta, con tutte le pecore scappate fuori dal recinto e una sola rimasta all’interno; ho l’impressione che la gerarchia continui a voler pettinare e curare l’unica pecora rimasta, senza pensare alle altre smarrite. Se si porta avanti quest’ottica la Chiesa non avrà altro destino che rimanere marginale al mondo e ai suoi cambiamenti”.

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