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La sprugola e le acque perdute parte 2

Quasi come l’acqua benedetta degli spezzini

La Sprugola e le acque perdute, un salto nel passato per capire meglio la città pre-industriale

Alla Sprugola di piazza del mercato, l’ottantunenne Giovanni Capellini, Senatore del Regno e Rettore dell’Università di Bologna, ricorda che quando era giovane, alla sua acqua la gente si abbeverava perché era «pulita». Era la prima metà dell’Ottocento, l’Arsenale era là da venire e la Spezia era racchiusa in uno stretto quadrilatero murato («una meschina area», la definisce Capellini). Il piccolo borgo era attraversato nella sua parte centrale dall’acqua dei mulini: scendeva dalla Chiappa, entrava in città all’altezza di Santa Maria e, dopo averla attraversata parzialmente interrata, scendeva al mare mescolandosi con l’acqua, sporca, del Lagora che costeggiava il braccio occidentale delle mura, quello che correva lungo l’odierna via Colombo (per facilitare l’orientamento ricordo che il castello è a nord). La Sprugola era fuori delle mura, era più faticoso andare ad attingere l’acqua là, però l’anziano Capellini ricorda che gli Spezzini d’antan la preferivano: «fortunati coloro che potevano approfittare e bere dell’acqua dei laghetti della Sprugola».

Ed ecco che con queste parole si manifesta la leggenda della Sprugola, di cui tanto avremo modo di dire. Quegli antichi abitanti erano fortunati per un paio di buoni motivi. Innanzitutto si dissetavano con acqua buona, o almeno migliore dell’altra in circolazione. Inoltre, compiendo quell’atto compivano il loro destino. Infatti, quel liquido che placava la loro arsura era anche una sorta di acqua santa che con una sorta di sacramento profano li marcava “battezzandoli” quali cittadini puri ed autentici della città. Bere dall’acqua della Sprugola equivaleva ad un rito che inseriva chi vi avesse attinto in una comunità di “eletti”: diventavano Spezzini doc, dop, igp e via andare con questi acronimi di cui credo quasi nessuno conosca il significato, ma basta leggerne anche solo una di quelle incomprensibili sigle su di un prodotto che veniamo all’istante rassicurati sulla sua genuinità. Così, uno dei pochi adagi originalmente autoctoni che la nostra terra è riuscita a partorire, recita che «l’aigua dea Sprügoa la liga a gente dea Speza quando i la bevo». In conclusione, se traduciamo questo proverbio, ne viene fuori che non sei uno Spezzino vero se almeno una volta non hai portato alla bocca l’acqua della Sprugola. Siamo sinceri, meglio così che nella Capitale dove si diventa veri Romani solo nel momento in cui si varca la porta del gabbione!

Comunque, Capellini riporta, io credo, una voce che per essere detta e ripetuta da tutti e da chissà quanto tempo, era diventata certezza indubitabile, anzi dogma indiscusso, verità di fede: «Veri Spezzini o Spezini [erano] solo coloro che bevevano l’acqua della Sprugola». Inoltre, non è questa la prima volta che quella vox populi viene nobilitata dall’essere inserita in un testo letterario. Infatti, la ritroviamo in un articolo del “Corriere della Spezia” del 9 ottobre 1909, che credo sia la prima testimonianza scritta che assicuri delle virtù “civiche” della Sprugola, almeno in base alle ricerche che sull’argomento ho compiuto. In attesa di essere smentito, dico che il pezzo giornalistico venne scritto da Carlo Caselli che spezzino proprio non era essendo nato in quel di Guastalla, in quel di Reggio Emilia, al di là del passo del Cerreto. Lui era arrivato qua, alla Spezia, non so proprio dire quando ma certo in abbastanza giovane età. Coup de foudre, colpo di fulmine, come e perché non si sa, ma è dato di fatto che lui, colpito al cuore da una freccia dell’immancabile Cupido, si era subito innamorato di questa terra a tal punto che la conosceva a fondo in ogni suo aspetto. L’aveva scandagliato passo passo in ogni posto al pari di un amante che senza ritegno il corpo della sua bella. Non aveva scartato neppure il più piccolo anfratto, ma aveva indagato minuzioso nel più remoto buchetto. Tante volte, infatti, negli articoli in cui parla del suo amore spiegandolo ai profani ancora ignari del portento che per accarezzarlo è sufficiente allungare un dito, alla fine si firma «Il Viandante» proprio perché perquisì in innumeri ed interminabili passeggiate l’intera Lunigiana. Ed alle sue tante preziosità dedicò altrettanti numerosi articoli. Comunque, nella seconda pagina di quel numero del “Corriere”, in un articolo intitolato, ma guarda un po’ tu il caso, «L’acqua della Sprugola», il buon Caselli si inventa una favoletta che immagina di avere ritrovato in una pergamena lacera e consunta (ma quante cose ha insegnato il buon Manzoni fino a “Il nome della rosa”!). Nell’antico manoscritto si narra, lui assicura, la storia di un uomo che arrivato da chissà dove alla Spezia nella più totale indigenza, riuscì ugualmente a fare fortuna nonostante che tali premesse suggerissero proprio l’esatto opposto. Diventato ricco nababbo da povero cristo quale fino a quel momento era stato, non volle mai, tuttavia, abbandonare la nuova terra che l’aveva adottato eleggandolo a figlio prediletto. Il perché è presto spiegato, né immagino che giunti a questo punto sia cosa misteriosa: «aveva bevuto l’acqua della Sprugola, espressione spesa tutti i giorni ad indicare l’attrazione magica esercitata dalla Spezia sopra coloro che si sono venuti a trapiantare nel suo cuore». Dunque, lui lo scrive, credo (ripeto) per primo, ma non inventa nulla: soltanto mette nero su bianco quello che non da in giorno era sulla bocca di tutti.

Ancora nel 1924 il Marchese Prospero De Nobili, illustre spezzino assurto ai vertici della politica nazionale, in una lettera che invia dalla Costa Azzurra dove in quel periodo risiedeva, rimpiange che l’aspetto della Spezia sia proprio del tutto diverso da come la sognavano da giovani «noialtri spezzini della Sprugola»: sono solo poche parole, ma bastano a confermare l’equazione che nell’immaginario collettivo esisteva fra la cittadinanza ed il grande invaso che dissetava la terra che quella gente abitava. In altri termini, Spezzino o Sprugolotto erano sinonimi, vale a dire che l’uno valeva l’altro. Come che fosse, dopo aver raccontato la sua storiella, il nostro buon Caselli, dopo aver descritto sommariamente quello che era al suo tempo l’aspetto della Sprugola («s’apre in un laghetto, dal volgo ritenuto senza fondo, a pochi passi dalla piazza del mercato»), di quel fenomeno naturale passa a tentare di spiegare la genesi, avvertendo però che la sua origine resta un inviolato enigma che non è dato al mortale non dico svelare, ma, si badi bene, neppure riuscire a comprendere. Caselli si esprime con parole di intensa religiosità, certo profana, ma dello stesso identico spessore di quella di ben diversa levatura che invita ad accettare il mistero senza metterlo in discussione ché appartiene ad una categoria che il pensiero umano non può neppure sfiorare. Quell’acqua proverbiale viene da lontano, portata da canali sotterranei, ma nessuno ha mai saputo dirne l’origine. Accade sempre di quelle cose che hanno facoltà meravigliose, la loro nascita rimane avvolta nel mistero: se si sapesse, nessuno più crederebbe alla sua virtù.

Ecco che così si compie l’importante operazione culturale per cui un fenomeno naturale viene trasfigurato, trasceso in una dimensione che abbandona in terreno per farsi spiritualità o, per gli scettici, metafisica. Per questa via la Sprugola appare agli occhi dell’uomo quale cosa divina graziosamente concessa all’uomo, i cui effetti benefici non possono che ripercuotersi provvidenzialmente su chi ne beneficia. Detto in altre parole più spicciole, i fortunati Spezzini godono di una speciale benedizione impartita da un nume la cui generosità è indipendente dal credo che dal beneficiario viene professata. Certo, ecco pronta lì obiezione, subito lì dietro l’angolo è ben visibile una sorta di panteismo, il credere, cioè, che dietro ogni aspetto della natura ci sia una divinità immanente, mondana. Lo diremo con maggiori dettagli fra non molto, ma intanto anticipiamo che qua si tratta di culto antico, rimasto per una forma di sincretismo che ha cavalcato i modi della fede che si sono succeduti nel territorio e che individua nell’acqua l’elemento fondamentale della vita che senza il suo indispensabile apporto non può assolutamente compiersi: l’acqua per bere, l’acqua per i campi, l’acqua per alimentare le macchine motrici che, come i mulini, risparmiano la fatica all’uomo ed ai suoi animali da lavoro.

L’acqua è sinonimo di esistenza dato che la vita in sua assenza non può essere. Il mito, la grande favola che racconta la presenza dell’uomo sulla terra mascherandola sotto un aspetto di invenzione fantastica, ce lo dice da sempre: è lezione che conosciamo più che bene anche se non sempre siamo ancora capaci di comprenderla e di decifrarla da tanto che siamo avvezzi alla sua forma di favola. Eppure, è lezione semplice. Mosè, la guida del popolo ebreo schiavo in Egitto, per essere salvato dalla persecuzione di Faraone, fu messo in una cesta ed affidata alla corrente del Nilo: fu il fiume che lo mise in salvo proprio consegnandolo alla figlia del suo oppressore che del bimbo ebbe cura di madre. Né a caso il nome significa nella sua lingua «tratto fuori dalle acque». Né diversa fu la sorte che toccò ai gemelli Romolo e Remo, accolti dal fiume Tevere che guidò il paniere che infanti li conteneva, fino all’ansa dove il latte della lupa provvidenziale nutrì loro come i cuccioli della fiera. Quale è mai l’insegnamento? L’acqua è salvifica, capace di superare ostacoli e difficoltà, indirizzando verso mete dove il pericolo non è. Sono esempi che conosciamo tutti, ma, già che ci siamo, ricordiamo che anche il meno noto Sargon re fondatore di Babilonia conobbe identico destino, strappato da mala sorte dalla virtù delle correnti di Tigri ed Eufrate, i due fiumi che resero fertile terra di civiltà, la mezzaluna che dalle loro onde era felicemente bagnata. Siamo, dunque, di fronte all’identico mito che si ripresenta eguale in terre distanti chilometri e, chissà, forse anche più che decenni, segno che la saga travalica i confini di spazio e tempo. Essa rappresenta una convinzione ancestrale, spia di condizione di vita e di suo innalzamento per trasfigurare il reale connotando la sua immanenza con un’aura superiore alla dimensione umana: è per questo percorso che viene affermata la sacralità della vita che il liquido assicurava. Siamo davanti ad un’operazione culturale che il mito figlio dell’epos, della parola che dell’uomo ripeteva l’avventura senza mai cambiarla ma modificandola sempre mentre la recitava, perseguiva senza mai conoscere stanchezza. Appena nato, Achille viene immerso dalla madre Teti, ninfa, divinità delle acque, nelle acque del fiume Stige che noi conosciamo attraverso padre Dante per essere rivo infernale. Invece, gli antichi ritenevano che avesse la proprietà di rendere la pelle di neonato che con le sue onde fosse venuto a contatto, invulnerabile a qualsiasi colpo di arma. Per questo Achille è invincibile. Tutto egli può osare tanto è sicuro dell’intangibilità del suo corpo. Tuttavia, pur figlio di dea, ha per padre un uomo. Per questo è egli mortale e gode, infelice, della proprietà che accomuna ogni vivente sulla terra quale che sia la sua condizione: l’essere destinato ad incontrare inevitabilmente, prima o poi, “sora nostra morte corporale”. Teti era stata accorta nel tutelare il figlio appena nato, ma improvvida nel non pensare che il tallone per cui teneva il bambino appena messo alla luce mentre lo calava nell’onda miracolosa, non poteva essere lambito dall’acqua salvifica. Proprio lì risiedeva del semidio invincibile il punto vulnerabile: piccolo, nascosto, minuscolo, ma bastevole perché la leggenda frutto di fantasia, rimanesse nel confine terreno della realtà. A distanza di secoli e di chilometri, identico scenario si ripete con Sigfrido. L’eroe della Saga dei Nibelunghi trafigge con la sua spada il drago malvagio per poi bagnarsi nel suo sangue che esce a larghi fiotti dalla mortale ferita che gli ha inferto. Sa bene che quella provvidenziale doccia gli assicurerà l’invincibilità sull’intero suo corpo. Ma un refolo di vento maligno spinge un’improvvida foglia di tiglio a posarsi sulla schiena dell’eroe. Pure lui è uomo, cioè destinato a finire, ed ha pure lui nonostante tutto un punto debole ed è là che verrà mortalmente colpito. Dirai che il sangue (dell’eroe germanico) non è l’acqua (del semidio ellenico), ma la sostanza del mito è identica: è pur sempre un liquido la sostanza che preserva gli eroi assicurando loro la supremazia fino a che la vita in loro si mantenga. Notiamo anche che sia Achille che Sigfrido sono eroi, nessuno può batterli in duello. Solo il vigliacco che colpisce alle spalle, a tradimento può infrangere la benedizione dell’acqua. La linfa preziosa va dunque salvaguardata con ogni massima cura che c’è sempre chi attenta alla sua virtù, che se ne vuole impossessare facendola propria perché è bene troppo prezioso, quello per il cui possesso l’uomo può diventare lupo famelico verso l’altro uomo.

Così si esprime il mito che nella fertilità della sua invenzione tramanda la realtà trasfigurandola in un castello di favole di cui è sufficiente superare la trasparenza del tessuto con cui sono confezionate, per accedere tanto alla comprensione del perché dell’origine delle storie, quanto del messaggio che esse esprimono. Il mito è trasfigurazione fantastica che opera la mente quando rimugina sul suo vissuto per rielaborarlo nell’epos, il lavorio collettivo della parola che supera la limitatezza dell’umano trasferendolo in una superiore dimensione metafisica. La nuova forma così assunta pare far dimenticare il contesto reale da cui tutto ha avuto inizio, ma, anche se può apparire cosa non semplice, decifrare il meccanismo non è impresa laboriosa. È sufficiente pensare a come viveva la comunità di umani che ha dato vita a quella costruzione ed a quale era il sistema di valori su cui si basava la loro esistenza. Questo è il meccanismo: in terra di Grecia come nelle vallate fertili ed ubertose, come nelle fredde brume del nord. Dappertutto quelle prime collettività avevano compreso, anche a proprie spese, che l’acqua era il primo elemento vitale. Per questo l’avevano fatta assurgere ad un rango superno e sacrale.

(parte 2, continua domenica prossima)

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