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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Una storia di Celide la bella

Celide

Gaetano Grendi, ricco armatore genovese, s’era fatto costruire una splendida villa in stile inglese, in alto, sopra le ultime case del paese. Lì la famiglia si trasferiva durante i mesi più caldi, e lui, ogni volta che poteva abbandonare gli affari per qualche giorno, li raggiungeva, prima col treno fino alla stazione di Spezia e poi con la barca di proprietà che l’attendeva al porto.
Erano di fatto i signori del paese, gli unici, e quando scendevano al mare in molti si toglievano il berretto.
S’erano tacitamente appropriati della piccola spiaggia, quella a levante del paese dove il sole indugiava più a lungo, e avevano fatto sistemare delle vele gialle e bianche per fare ombra al tavolo e alle sedie, un gabbiotto per cambiarsi e corde tese a delimitarne il perimetro, ma nessuno aveva trovato da ridire. I bagni di mare ancora non usavano tra il popolo e poi i Grendi senza preoccuparsi del risparmio, sebbene genovesi, comperavano pesce, frutta e verdura, e avevano dato, e davano ancora, lavoro a molti nel paese: cuochi, domestici, custodi, giardinieri, facchini, carpentieri, manovali… E quindi riverirli conveniva. Non erano spocchiosi ma si capiva, aldilà delle buone maniere che, a parte il prete, il dottore, qualche foresto come loro e quei quattro che avevano studiato, non gradivano mischiarsi troppo coi paesani.
E invece lo sguardo di Jacopo, l’unico figlio maschio, inciampò sugli occhi, il viso, le forme, l’incedere da regina indulgente di Celide, la più bella tra tutte le ragazze dei paesi del golfo.
Avevano entrambi vent’anni quel giugno del 1902. Jacopo s’era finalmente diplomato e quello era il primo anno che non doveva studiare anche d’estate. L’autunno successivo avrebbe cominciato a lavorare con il padre negli uffici di via Fieschi, per questo motivo frequentava di più la spiaggia e il borgo.
Tante ragazze si mettevano in mostra quando lo vedevano scendere dal carubio verso la marina, era bello ed elegante, forse un poco pallido e magro, così diverso dai ragazzi del paese.
Inoltre era ricco, se c’era una possibilità di farsi notare, senza apparire civetta, dato che tutto il paese aveva occhi, perché farsela sfuggire? E pure parecchie mamme abbellivano allo scopo le ragazze, con sobrietà certo, senza strafare, ravvivando solo un poco le gote e le labbra insieme alla speranza di trasformare, almeno per la figlia, una vita con poche o nulle speranze di uscire dalla miseria in una vita agiata e nella città grande.
Jacopo, che sciocco non era, si accorgeva e compiaceva. Un po’ si divertiva all’idea di quelle ingenue che speravano di attrarre lui, uno dei migliori partiti di Genova. Finché non vide Celide.
Nel paese si raccontò per molti decenni, e divenne quasi una fiaba da narrare alle bimbe prima della nanna, di come il bel Jacopo fu fulminato dalla povera ragazza di paese, e di come a tutti i costi voleva prenderla in moglie e incatenarla a sé.
Perdutamente si innamorò, non pensava che a lei e nient’altro gli interessò più nella vita.
Ma a Celide non piaceva Jacopo, e forse nessuno piacque mai.
Tuttavia i genitori di Jacopo, che intanto si struggeva, del tutto contrari a quell’innamoramento – il loro primogenito doveva accasarsi bene e addirittura qualche mossa già era stata fatta per destare l’interesse della contessina del Cerreto di Savona – non solo obbligarono il figlio a rientrare a Genova praticamente a forza, ma pagarono, e bene, la famiglia di lei per spedirla da alcuni lontani parenti emigrati a San Paolo del Brasile (in quegli anni metà dei 260.000 abitanti erano italiani) dove avrebbe potuto fare innamorare qualche ricco “fazendeiro”, portoghese, italiano o altro, non aveva importanza, l’importante era, come ebbero a dire i Grendi, in un momentaneo cedimento di classe che il ceto gli imponeva: «Che si togliesse definitivamente dai coglioni».
Così, ubbidendo gioco forza alla famiglia ma comunque curiosa e con la voglia di scoprire altre cose al di là del ristretto orizzonte chiuso tra quelle due isolette, Celide si imbarcò in prima classe la calda sera del 24 agosto sul Perseo.
Dopo ventinove giorni di navigazione e una feroce lite sviluppatasi tra gli ufficiali a causa sua, e di cui quasi neanche si accorse, sbarcò nel porto di Santos, a ottanta chilometri da San Paolo, ad aspettarla c’era una zia con il marito e una carrozza scoperta, le fecero festa. Quel suo primo viaggio nell’aria così diversa dei tropici, attraverso foreste, villaggi, canali e laghi, colori e profumi le empì gli occhi e il cuore e lo ricorderà per tutta la sua lunga vita.
In quell’inizio di primavera australe infranse almeno tre cuori, compreso quello di un avvocato cinquantenne di Trieste, da quindici in Brasile e fin allora devoto solo alla bella moglie creola, che per lei distrusse la famiglia e tentò il suicidio, ma sbagliò il colpo e si mutilò il naso.
Ribelle e altera, Celide non concesse mai a nessuno i suoi favori.
Si fermo lì un mese e dieci giorni, poi, col biglietto di seconda pagato dai parenti, che preferirono allontanarla per evitare altri scandali – lei neppure se ne accorse, né mai se ne curò –, con la stessa indifferenza si imbarcò sul piroscafo Centro America e fece ritorno al suo paese.
Jacopo non ricomparve più alla villa. Si sposò con una cugina di Loano, ebbe cinque figlie, ingrassò molto e si occupò sempre e solo degli affari di famiglia. Morì d’infarto durante il bombardamento navale francese del 14 giugno 1940.
Celide mai s’innamorò, né conobbe l’amore.

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