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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Arfò er descordà

Pecora sul mare

Alla Serra, un borgo a un paio di tiri di schioppo dal mare, non moltissimi anni fa tutti erano contadini di olivi, vigne, fichi, pochi stentati ortaggi e quasi ogni famiglia possedeva qualche pecora e d’estate con quei miseri greggi scendevano fino al mare per tosarle, lavare la lana e farla asciugare al sole sugli scogli.

Tra questi pastori-contadini ce n’era uno che chiamavano ‘Paolo il poeta’ perché era sempre a fantasticare con le parole ed era un piacere e un ristoro per l’anima poterlo stare ad ascoltare.

Una calda mattina di luglio Paolo aveva portato le sue undici pecore sulla spiaggia del Pertuso e lì Alfonso, un ragazzino di undici anni, era andato a cercare sotto gli scogli vermi di mare per la pesca. Paolo invece era in cerca di parole.

Una grossa nuvola bianca che s’era messa davanti al sole l’aveva persuaso che quello non era un giorno buono per tosare. S’era quindi seduto e aveva iniziato a inseguire a voce alta la poesia che i velieri lontani e quella fresca mattina gli suggerivano:

… se da quest’ombra sembrano

di piuma persino

le scogliere

– tu pensa alle barche: di carta

velina, e piume davvero

gli uomini alle vele*.

Questi, e altri versi che coloravano meglio la vita diceva e scriveva e correggeva sopra un foglio.

Alfonso fermò la sua ricerca e con in mano una manciata di bighe rimase ad ascoltare.

Non aveva mai sentito niente di simile e rimase come fulminato, mai aveva creduto che le parole potessero rimescolare così stomaco e cuore, e pure gli occhi perché seguendo il senso e il suono di quelle frasi vedeva in modo nuovo il mondo, ma anche cose che mai aveva visto prima e nemmeno sognato. Si avvicinò e si sedette sulla sabbia vicino a Paolo che gli sorrise. Rimasero un attimo in silenzio, poi il ragazzino disse: «Ancora».

Paolo sorrise di più e cercò nella bisaccia un quaderno custodito in un panno rosso e cominciò a leggere per lui.

Un paio d’ore più tardi il ragazzino accompagnò pecore, Zvani, un cagnetto grigio, e Paolo a casa sua. I suoi, che già lo conoscevano di vista, lo invitarono a pranzo, e lui offrì loro una formaggetta.

Discussero mangiando, a Paolo serviva qualcuno che stesse dietro al gregge per un paio di mesi perché aveva da sistemare delle piane mezze imboschite che gli aveva lasciato una zia e ad Alfonso l’idea piaceva molto. Finito il caffè l’accordo era concluso; niente soldi, tre formaggi, un fiasco d’olio, due di vino e una volta ogni tre settimane Alfonso sarebbe tornato a casa per la notte.

Così fu per quei due mesi, poi Alfonso disse a mamma e papà che voleva continuare a stare con le pecore e con Paolo ancora un po’ perché gli piaceva fare quella vita e nessuno ebbe niente da ridire.

I mesi divennero sei, poi un anno, poi due e così via. Tornava a casa sempre meno, solo per portare lo stipendio. Poi cominciò a fare solo delle fugaci visite alla mamma.

Quando lei morì lui aveva quasi diciannove anni. Da allora non scese più in paese.

Aveva chiesto a Paolo di insegnargli a scrivere poesie e parecchie sere, quando non restava col gregge su in collina, ci avevano provato, ma non era proprio tagliato per comporre versi, più che altro restava abbacinato ad ascoltare. Così lasciò perdere, però in quel tempo aveva imparato perfettamente a leggere.

Portava sempre nel tascapane almeno un paio di libretti di Leopardi, Pascoli o Byron, che restavano i suoi prediletti. Meno apprezzava Alfieri, Foscolo e Verlaine; di D’Annunzio amava “La pioggia nel pineto” e detestava “I pastori” che trovava fasulla. “Scritta per incantare” diceva “ma senza sentimento”.

Sui colli da cui si vedeva il mare, nei boschi di querce, sui piccoli ritagli d’erba verde di quei posti a picco sulle rive, sotto gli olivi grigi o, al ritirarsi delle piene, nelle terre fertili che costeggiavano il fiume, portava le pecore di Paolo e le accudiva con amore.

Spesso si fermava a sedere su una roccia o un ceppo e iniziava a leggere, per sé, le pecore e Zvani, che era diventato una specie di orso ubbidiente; sembrava l’ascoltassero, lui ne era convinto.

Aveva imparato a far nascere gli agnelli e a fare dei buoni formaggi, a tosare e a riconoscere ogni animale alla vista o al primo belato. Una volta aveva avuto a che fare con tre briganti che gli volevano rubare gli animali, li mise in fuga pigliandoli a sassate con urla disumane e anche il cane fece la sua parte. Un’altra volta si imbatterono in un vecchio lupo sbandato che non si decideva ad allontanarsi nemmeno a bastonate, alla fine Alfonso gli lanciò un pezzo di pane con un po’ di lardo e quello li seguì per sei giorni attendendo a distanza e sottovento altri avanzi di cibo.

Aveva contatti solo con Paolo al quale consegnava ogni guadagno del venduto, tenendo solo pochi spiccioli per sé. Paolo gli portava su nel casotto nel bosco il necessario per vivere, i suoi ultimi versi e nuove raccolte di poesie.

Quando Paolo morì, Alfonso aveva trentasette anni, gli lasciò in eredità metà del gregge, che grazie alle sue cure aveva più che quadruplicato il numero dei capi, il capanno sotto i castagni, il cane e l’ovile che avevano costruito insieme: nessuno dei parenti ebbe qualcosa da obbiettare.

Dal giorno seguente al funerale, al quale partecipò in fondo al piccolo corteo, divenne ancora più invisibile. I suoi paesani, i familiari, gli amici d’infanzia, non si ricordavano quasi più di lui e quando qualcuno lo scorgeva da distante su un sentiero insieme ai suoi animali o le rare volte che inaspettato sbucava fuori da un discorso, il suo nome ormai per tutti era “Arfò er descordà”.

Visse fino a settantasette anni con gli occhi sereni e la gran barba bianca. Conosceva a memoria trecentosessantacinque poesie, una per ogni giorno dell’anno.

Non scese mai al mare per tosare le sue bestie, preferiva l’acqua dolce del fiume o dei canali.

Ogni tanto, appoggiato al lungo bastone di nocciolo, gli capitava di guardare da un colle il golfo e il suo paese e un po’ si sorprendeva nel non provare nulla.

Soltanto, se lo sguardo si posava su una particolare spiaggia, si commuoveva fino al pianto al ricordo di un pastore che recitava ad alta voce e di un bambino con dei vermi in mano.

Infine sparì del tutto. Probabilmente morì d’autunno in un bosco di lecci, roverelle e pini.

Le pecore con Zvani tornarono all’ovile.

 

*di Paolo Bertolani

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