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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

6 marzo 1901

Arsenale della Spezia

La città era tutta un cantiere. Il treno, pieno di ragazzi ma anche di gente meno giovane venuta lì da tutta Italia in cerca di lavoro, si svuotò. Si fece indicare la via, ma non era difficile, tutti andavano al porto.

Dopo una decina di minuti a piedi di buon passo, scendendo dalla stazione verso il mare e oltrepassando un imponente portale piantonato da militari armati, raggiunse un enorme piazzale. Qui lo fecero entrare in uno stanzone, una specie di corridoio con un’entrata, un’uscita dal lato opposto e quattro scrivanie, due a destra e due a sinistra, e altrettanti addetti in divisa; dopo una lunga coda che gli sembrò stranamente composta e silenziosa, fu ascoltato da un sergente toscano, di Livorno, che lo prese in simpatia perché, dopo l’interrogatorio che gli fece, scoprì che praticava la ginnastica sportiva come lui.

Amerigo gli fece vedere le referenze scritte dal signor Rizieri, il capomastro che gli aveva insegnato il mestiere. Non erano in tanti ad averne tra quelli che si presentavano alla foresteria, così il sottufficiale chiamò un marinaio e gli disse di portarlo a parlare con un capocantiere.

Dopo almeno dieci minuti e non senza difficoltà lo trovarono, perché gli spazi all’interno dell’arsenale erano smisurati e ovunque stavano lavorando.

Il capocantiere era piemontese, di Cuneo, si chiamava Dalmasso, alto, magro, un grosso naso, mani enormi e una testa fitta di capelli neri, bastava guardarlo per capire che sapeva fare bene il suo lavoro.

Non fece nemmeno caso alle referenze ma gli chiese cosa sapesse fare: Amerigo rispose che aveva esperienza nel costruire case e muri a secco e a calce, fare impasti e far di conto, realizzare finestre e archi e tenere puliti e in ordine gli attrezzi. Dalmasso lo soppesò con gli occhi, poi, siccome non erano pochi quelli che gli raccontavano storie, lo mise alla prova.

Amerigo impastò il cemento e spaccò pietre a misura, poi le murò in un moletto che stavano costruendo dove cominciavano a realizzare un nuovo bacino di carenaggio. Fece presto e bene. Dalmasso sorrise: si fece dire il suo nome e gli disse di tornare il lunedì puntuale alle 7 del mattino, poi lo rispedì dal sergente che gli prese i dati per il libretto di lavoro come operaio della Marina mercantile. “È andata bene mamma”, pensò, e la soddisfazione gli dipingeva la faccia: “Di meglio non potevo sperare. Tra pochi giorni comincio e c’è davvero un mondo da costruire”.

Agli inizi dell’800, la prima idea, che quel golfo fosse perfetto per una grande base navale, quando Spezia faceva parte del suo Impero, era venuta a Napoleone; ma era stato il Conte di Cavour, primo Presidente del Consiglio del Regno d’Italia e Ministro della Marina, a dargli il via quarant’anni prima, e ancora c’era tanto da fare.

Anche solo da quel poco che aveva visto, Amerigo lo trovò immenso, più grande di Camaiore tutta. Il marinaio che lo accompagnava gli disse che anche il porto mercantile era bell’iniziato ma c’era moltissimo da ultimare e poi aggiunse con orgoglio, come se parte del merito fosse suo, che in cinquant’anni anni Spezia era passata da seimila a settantatremila abitanti e che c’era gente da tutta Italia che continuava ad arrivare lì per lavorare. “E questa gente”, rifletté Amerigo “ha bisogno di case e appartamenti, e quindi il lavoro per un bravo muratore come me non mancherà di sicuro. Ho fatto bene a venire mamma, mi spiace di non vedervi, voi, Vasco e la Licia, ma se voglio costruirmi una casa e una famiglia, proprio qui dovevo venire”.

Fatte le pratiche col sergente livornese si informò su come arrivare a San Terenzo dove l’aspettava l’amico di suo padre. Lo indirizzarono all’imbarcadero, fece il biglietto e prese il piroscafo ‘Sollievo Operaio’.

Trovò il golfo magnifico, il mare era calmo, il sole non scaldava ma faceva piacere stare allo scoperto e guardare tutto quel blu pieno di vele di tanti colori perché, gli spiegò un viaggiatore, ogni borgata della costa ha i suoi colori. Davanti a un paese proteso come una freccia verso il mare c’erano due isole, una più grande e una più piccina, si fece dire il nome ma li scordò quasi subito preso com’era dal godersi quella bellezza e le emozioni di quel giorno.

 

PS: Renzo Fregoso, in Demóa d’amóe (Accademia di Scienze “G. Capellini”, 2002), col suo straordinario lavoro poetico intinto nel più tipico humour spezzino immaginò l’Arsenale come sposo di Spezia: “Se anche l’ha empita di bacini, specialmente sul seno, ebbene, ancora oggi non saprei dirvi se fu un incontro felice”.

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