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Sprugoleria

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Il ciapacan, l’accalappiacani alla spezzina

Castello di San Giorgio

Ogni volta che dicevamo te-chini-chi, parole diventate meritatamente famose per essere pronunciate con la lineetta, qualcuno immediatamente celiava chiedendo se fossero arrivati i cinesi.

Lo stesso potremmo domandarcelo oggi se sentissimo dire ciapacan, termine davvero molto desueto perché a contribuire alla sua stranezza c’è che si riferisce a un’attività non più praticata.

La parola la si potrebbe anche immaginare figlia di un idioma anatolico per il suo finale che ricorda il nome di un aitante attore divenuto celebre un po’ come interprete di soap opera e soprattutto per la prestanza fisica che lo fa protagonista delle divagazioni oniriche di non poche signore ma pure di qualche appartenente al sesso forte.

Del ciapacan ho un vago ricordo infantile, così sbiadito e obnubilato che non saprei proprio dire se provenga da cose viste nella realtà o rimbalzate nella mente per giochi della fantasia.

La vedo quella persona vestita con la divisa del Comune con berretto recante come fregio lo stemma di Sprugola City. Munito di un lungo bastone che terminava con un laccio stringibile, andava in giro per la landa per catturare i cani randagi che, una volta catturati con l’attrezzo, venivano trasferiti in un villaggio non piccolo: detto canile comunale era al castello.

Questi tizi gli Sprugolotti in genere li chiamavano appunto ciapacan, solo per i più evoluti nella dizione erano gli accalappiacani.

Per me costituivano momenti di autentico terrore perché una delle cose che maggiormente mi terrorizzava da bambino era che nelle loro grinfie potesse cadere l’amata Lilla che un giorno non trovai più perché, mi dissero, il dottore aveva suggerito di farle cambiare aria: la prima, forse la più dolorosa, di tante passioni giovanili finite prematuramente.

Al tempo degli antenati il ciapacan era il sistema, forse l’unico, con cui si combatteva l’idrofobia: un virus che, trasmesso dal morso di un cane (quanti ce n’erano allora arrabbiati furiosi per la fame) faceva il salto di genere. La cronaca del tempo ricorda i ciapacan intenti nelle loro funzioni: tirò il laccio e condusse il cane al Castello, dice un resoconto di 130 anni fa.

Da tempo tale figura professionale non esiste ma voci di corridoio sono certe che sarà ripristinata anche se con altro nome, accalappiacinghiali, animali all’ordine del giorno oggi.

Però, nella lingua degli antenati che pure li conoscevano, non c’è un nome per gli ungulati, segno di una presenza che non meritava un lemma sul vocabolario: da riflettere sul perché. 

Mi permetto allora di coniare un neologismo per la futura professione: ciapaporcoservàdego.

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