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Diario dalle Terre Alte

Diario dalle terre alte

Quel piccolo angolo di Spezia in terra parmense

Diario dalle Terre Alte.

Il Diario dalle Terre Alte riprende dall’Alta Val di Vara e dalla “terra di Varese”, in particolare da un luogo su cui avevo già anticipato qualcosa, scrivendone come della “prossima tappa” del mio viaggio con don Sandro Lagomarsini alla ricerca dei tesori di arte e di fede delle Terre Alte (nell’articolo del Diario “Il Monte dei Greci”, 23 agosto 2020): Perosa, oggi Pelosa, piccolo angolo di Spezia in terra parmense.
Salendo da Varese Ligure verso il passo del Bocco ci si lascia alle spalle la provincia di Spezia per entrare in quella di Genova, fino ad arrivare al passo. Da qui sinistra si va nel Tigullio, verso Borzonasca e Chiavari, a destra nel Parmense, in Val di Taro. Superata Santa Maria del Taro si rientra per pochissimo nella provincia di Spezia: Pelosa fa infatti parte del Comune di Varese Ligure, in particolare del territorio di Scurtabò, di cui don Sandro è parroco. In questa enclave ligure in terra parmense si arriva anche a piedi dal monte che sovrasta Varese, il Ventarola, e dai suoi prati dove pascolano le mandrie di bovini, attraverso un sentiero che riprende l’antico tracciato pedonale. Da Pelosa il Ventarola è ben visibile.
Don Sandro mi legge un documento del 1382, dove si descrivono i confini di Varese Ligure:
“Dal monte Lamba calando alla fontana Zemella discendendo nel rivo d’Overara entrando nel fiume Taro; andando sopra detto fiume sino allo scoglio qual si dice Pozzo di Varese, dove si dà principio a un monastero, assai ospitale”.
Era l’Ospitale di San Pellegrino (nella foto in alto ammirate l’oratorio, sopravvissuto fino ai nostri giorni). Si trattava, forse fin dall’inizio, di una struttura costituita da una piccola chiesa, da uno spazio per ospitare i viandanti e da un cortile (“corte”) dove riparare le cavalcature e le merci. Gli abitanti conservano la notizia che la “corte” era costituita da un muro ad arco (certamente in antico munita di porta). La memoria locale parla di una “caserma” e di un “luogo fortificato”.
Nella Carta De Grassi (1602) si segna il “Pontòn”, il ponte che attraversava il Taro e di cui rimangono oggi due piloni in muratura. Nella Carta Salasco-Quaglia (1817) si vede bene la “corte”. Il posto viene chiamato Perosa. Anche nelle carte dell’Archivio di Parma il luogo è noto con il nome di Perosa.
Don Sandro mi spiega la possibile derivazione del toponimo. Il termine deriverebbe dal latino “pluxia” che sta a indicare un invaso per la pioggia (tale si doveva presentare secoli fa la grande piana fra il rio Overara e il Taro) da cui “piùsa”, “peùsa” e infine “Perosa” o “Pelosa”. Dall’altro lato della strada, rispetto all’oratorio, c’è una distesa erbosa, là dove un tempo veniva raccolta la pioggia.
Nell’oratorio splende la statua settecentesca di San Pellegrino, che ammirate nella foto in basso. Accanto ci sono sei busti porta-reliquie che portano sul retro i nomi delle famiglie donatrici (tutte del posto), da poco restaurati grazie all’impegno di don Sandro e della Soprintendenza.
L’ospitale richiama al ruolo strategico esercitato per molto tempo da quei territori nella rete degli scambi tra Liguria ed Emilia: era infatti luogo di riposo durante i viaggi, dogana tra la Repubblica di Genova ed il Ducato di Parma per il passaggio del bestiame durante la transumanza, oratorio per pregare. Un tesoro di arte ma anche di vita civile, sociale, religiosa.
La posizione strategica fece sì che Pelosa, durante la Resistenza, fosse anche il luogo, l’11 luglio 1944, di una sanguinosa battaglia tra una colonna di granatieri tedeschi e i partigiani della brigata “Centocroci”, operante nella Resistenza spezzina, e di altri gruppi della Resistenza parmense. La battaglia della Pelosa è uno dei momenti più significativi della difesa della Repubblica Libera del Taro, che ebbe vita dal 15 giugno al 20 luglio 1944. Vicino all’oratorio è la lapide, che andrebbe restaurata (faccio appello al Comune di Varese Ligure): ricorda i caduti, tra cui il diciottenne spezzino Angelo Galligani, detto Angiolino. Era ferito, ma volle prendere parte alla battaglia, di nascosto ai compagni. Il suo corpo e quello di altri suoi compagni, lasciati in un cascinale per essere poi sepolti, furono profanati e bruciati dai tedeschi.
A distanza di un anno, Varese mostra nuove bellezze. A Salino, paese raggiungibile salendo lungo la strada che da San Pietro Vara porta a Sestri Levante, si può ora ammirare, grazie alla Parrocchia, alla Soprintendenza e alla Compagnia di San Paolo, la “torre ritrovata”: una torre medievale nel corpo più a nord della chiesa. Segno che prima della chiesa c’era un castello. Come a Castello di Carro (ne scriverò nel Diario). Segno, come San Pellegrino, dell’importanza della “terra di Varese” come punto di passaggio tra il Mar Ligure e le vie verso le regioni padane.
Quest’anno i turisti non sono mancati, anzi. Non avevo mai visto Varese così affollata d’agosto. Molti erano stranieri, mi conferma il Sindaco Giancarlo Lucchetti. Tra le belle notizie, quella che forse sta per concretizzarsi il progetto, redatto dal Comune e finanziato dalla Soprintendenza, di rifacimento del tetto del Castello dei Fieschi a Varese: oggi ci piove dentro, ed è un limite all’utilizzo dell’edificio, oltre che un danno. Ancora: i proprietari hanno donato al Comune i ruderi del castello di Monte Tanano, sulla via verso il passo delle Cento Croci. Può ora prendere corpo l’idea di un percorso che unisca i tre castelli: l’altro, anch’esso in ruderi, è a Novasina, sulla via verso il Monte Zatta.
Ma non tutto va per il verso giusto: le strade provinciali sono in stato rovinoso, per esempio. Soprattutto si stenta a trovare una soluzione per la crisi di Ars Food, l’azienda degli yogurt biologici. Sono 15 posti di lavoro, “in proporzione è come la Mirafiori per Torino”, mi dice il Sindaco.
Tuttavia si può e si deve sperare: che i giovani restino, che altri tornino. Che non si perdano più terre fertili, che non vadano più in rovina patrimoni abitativi, che non si deteriorino più i nostri boschi e la nostra biodiversità, anche animale. Che tornino le economie agricole e forestali di un tempo, ma anche le scuole e i servizi sanitari. Insieme a un nuovo turismo e a una nuova cultura. Perché nelle Terre Alte c’è un rapporto diretto con la natura, e con i suoi prodotti alimentari. Perché le Terre Alte custodiscono un patrimonio artistico e architettonico qualitativamente altissimo. Perché c’è più senso della comunità. Il loro ripopolamento servirebbe a decongestionare e a migliorare le città. Fino ad ora città e campagna-montagna hanno rappresentato due modelli alternativi. Oggi invece il loro rapporto dovrebbe essere di osmosi. Bisogna fare due rivoluzioni parallele, unite dal bisogno di uno stile di vita più ecosostenibile e basato sulla prossimità.

Post scriptum:
su Varese Ligure rimando a questi articoli del Diario dalle Terre Alte:
Arte e devozione nella “terra di Varese”, 16 agosto 2020
Il Monte dei Greci, 23 agosto 2020
I due tesori di San Pietro, 30 agosto 2020
Lungo l’antica via del sale, tra il forno per i viandanti e il paese fantasma, 6 settembre 2020

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