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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Chiacchierando con P. B. S.

Calzoni corti e ginocchia sgarbellate.

Villa Shelley

Avevo 12 anni, compiuti da pochi mesi; era primavera, una di quelle belle primavere calde ed esageratamente profumate che sbocciavano dopo gli inverni di parecchi anni fa, quando il freddo arrivava davvero e i panni stesi nella notte si trasformavano in specie di stoccafissi secchi e gelati, e l’acqua, nei secchi lasciati all’aperto nelle campagne o nelle barche alla marina, gelava, e noi ragazzetti di quegli anni si andava comunque in giro con i calzoni corti e le ginocchia sgarbellate.
Quel pomeriggio ci si era dato appuntamento con i compagni di classe in passeggiata, davanti alla casa di Shelley.
Per noi delle case popolari non era poi così naturale “scendere” in paese; i rioni, anche in un paese piccino, esistevano come esistevano le bande, tipo quelle de La guerra dei bottoni o de I ragazzi della via Pál (chissà se qualcuno ricorda questi bei libri di noi bambini di fine anni ’60? E, soprattutto, se qualcuno li legge ancora?).
Ricordo l’ultima di queste guerre di quartiere tra la banda, appunto, delle Case popolari e quelli della Strada nuova, l’unica “guerra” alla quale partecipai. Ero il più piccolo, avevo dieci anni e me ne stavo accuratamente in fondo al nostro schieramento, armato di un arco che mi ero costruito per l’occasione con una stecca di giunco di un ombrellone, come frecce dei polloni di olivo che avevo scortecciato con grande cura.
Capo della nostra banda era, per la prima volta, mio fratello, aveva 14 anni e brandiva, a mo’ di clava, un ramo di palma al quale aveva legato delle corde con in cima dei sassi, una sorta di arcaica frusta che doveva, secondo le aspettative, incutere timore e terrore nei nostri avversari.
L’appuntamento per la battaglia era al confine tra i due quartieri, appena sopra la scuola, nella continuazione di quello che era, ed è, il carubio del mio paese; una viuzza lunga e stretta dai due lati da grigie mura di cinta, quindi senza alcuna possibilità di tattica o di fuga strategica; unica alternativa alla vittoria… un’indecorosa ritirata.
Capo di quelli della Strada nuova era Marco il rosso, grande amico e compagno di terza media di mio fratello, ma in quel momento “mortale nemico!”.
Ecco che i due schieramenti si affrontano, circa una dozzina di ragazzini per ogni esercito, scalmanati, urlanti, minacciosi… con espressioni feroci e spaventate insieme. Io, dal fondo delle nostre truppe in quel vicolo striminzito vedevo poco, sentivo le grida e gli incitamenti e poi la voce del nostro comandante che molto eroicamente disse, più o meno: «Inutile è, oh Marco il rosso, rischiare molte vittime tra le nostre schiere. Ti sfido quindi in un duello tra capi, e chi vincerà la tenzone sarà dichiarato trionfatore e avrà diritto di possedimento di tutta la via fino all’angolo della Madonnetta!» Marco accettò la sfida.
Tutti fecero un passo indietro ed i due capi rimasero soli fissandosi negli occhi e muovendosi intorno, per quanto quello spazio esiguo permetteva.
Calò un silenzio di tomba. Marco era armato di un lungo bastone di castagno, mio fratello faceva roteare la sua terribile frusta, e solo il sibilo delle corde nell’aria rompeva quell’innaturale assenza di rumori. Infine, dopo interminabili minuti, sferrò il suo attacco!
Fece un passo in avanti e le sue sferze saettarono verso l’avversario che si abbassò timoroso alzando sopra il capo la sua arma per parare il colpo, le corde si avvilupparono al bastone, il rosso lo ritrasse e il nostro fiero capitano sentì volargli via di mano la sua arma preparata con tanto impegno. Immediatamente, alzò le braccia al cielo ed urlò: «Ci arrendiamo!» Noi piegammo il capo e tristi e sconfitti tornammo nel nostro quartiere a far merenda con pane olio e sale e a giocare a pallone nel campetto polveroso.
Questa fu l’ultima (e l’unica alla quale “partecipai”) delle guerre tra bande di quartiere. I tempi, per fortuna o purtroppo, stavano velocemente cambiando.
Insomma, segno certo del cambiamento dei tempi, due anni dopo non avevo più timore di scendere fino in passeggiata da solo. Gli amici mi aspettavano davanti alla casa bianca con le cinque arcate, l’ultima dimora di Shelley.
Alcuni erano abituati, quelli che abitavano sul lungo mare o nei paraggi, per me era la prima volta che scavalcavo il muro e l’alta siepe di pitosfori per andare a giocare in quel parco celato, sempre chiuso, misterioso, con un’aura di mistero e di magia che da sempre lo circondava.
Decidemmo di giocare a nascondino, mi andai a nascondere in un punto remoto dove c’erano i resti di un fontanile con una statua di donna e lì, per la prima volta mi sentii chiamare: «Beppe!» Guardai intorno, non c’era nessuno. «Chi sei?» risposi timoroso con un filo di voce. «Io», rispose «Siedi qui, fammi compagnia, chiacchieriamo un poco».
Feci come mi chiese quella dolce calma voce con un elegante accento straniero. E quella fu la prima volta che parlai con Percy, ma questa è un’altra storia.

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