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Una storia spezzina

Una storia spezzina

Dario Fo come Fedez, ma al Monteverdi non su Instagram

di Alberto Scaramuccia

Dario Fo

Come fonte per la puntata di oggi attingo ai ricordi di oltre mezzo secolo fa.
Era il 1969, un anno della contestazione globale che in primavera già stava preparando l’autunno caldo, la stagione del rinnovo dei contratti. Le sirene dei pro e contro si facevano sentire in ogni momento provenienti da più parti, spettacolo compreso. Chi si scandalizza per gli interventi di Fedez non dimentichi che ci sono precedenti illustri.
Ebbene, reduce da altre piazze, arrivò qua Dario Fo per presentare “Mistero buffo”, opera oggi più che nota ma al tempo novità assoluta. Fu rappresentata al Monteverdi: il maxiemporio cinese era allora il più grande teatro ligure dove ai più grossi nomi del varietà si alternavano megaincontri di boxe. Negli intervalli due film al prezzo di uno: il 2 x 1 l’hanno inventato lì.
Era un teatro frequentatissimo ma quella sera non si pagava il biglietto. Per entrare si doveva essere soci Arci, escamotage ideato per evitare il pericolo (vero) che intervenisse la polizia a sospendere la rappresentazione. Essendo per soli “soci” diventava uno spettacolo “privato” e davanti al botteghino si raccoglievano le iscrizioni: fu coda lunga e il Monteverdi fu strapieno anche se gli agenti erano ugualmente in sala. Furono salutati burlescamente da Fo che fin dalle prime battute dichiarò da che parte stava.
Iniziò a criticare Croce per come interpretava “Rosa fresca aulentissima”, la famosa botta e risposta fra uno spasimante e una donna. Lui le dice subito che è così bella che “le donne ti disiano pulzelle e maritate”: per don Benedetto elogio metaforico, per Fo un’intensa dichiarazione di vero amore.
Battutaccia quasi sacrilega che convinse qualcuno del pubblico venuto per l’attore reso famoso dalla tv ad andarsene ma i più rimasero seduti ad ascoltare il giullare che resse la scena per oltre due ore da solo, mimando e parlando con quella sua voce che cambiava di continuo registro e che affascinava traendo a sé l’attenzione dello spettatore sempre di più coinvolto nello spettacolo.
Alla fine quasi nessuno si rendeva più conto della matrice politica travolto com’era dal grammelot, la lingua franca inventata dall’attore per rappresentare nell’invenzione scenica la parlata dei vinti della terra. La lingua dei poveri cristi era fluida, fluente, caricaturale, capace di svariare dallo stridulo al suadente, volutamente accentuata o disinvoltamente leggera, ma sempre coinvolgente.
Anni dopo l’avrei rivisto in tv ma quella serata al Monteverdi fu, e non solo per me, la prima di uno spettacolo bello ma che soprattutto insegnava quante letture possono avere le cose.

PS: Questo è l’articolo numero 1100. Grazie a chi legge e a chi mi fa leggere.

ALBERTO SCARAMUCCIA