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Quisquilie e meraviglie

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Lettera da Kabul

di Beppe Mecconi

Kabul

Questa mattina, aprendo la posta elettronica, trovo l’e-mail di un’amica che non leggevo da tempo, troppo tempo. Una splendida artista afgana che avevo conosciuto quando era poco più di una ragazzina a Istanbul, e poi di nuovo qualche anno dopo ad Algeri.
Per qualche tempo eravamo rimasti in contatto, avevo provato, purtroppo inutilmente a farla esibire in Italia. Poi, come spesso succede, ci siamo persi.
E stamani, rileggendo dopo anni il suo indirizzo e-mail, ho avuto, ancor prima di leggere le sue righe un colpo al cuore, e mi sono sentito, e mi sento, così in colpa di non aver provato a cercarla, forse, ad aiutarla.
Spero mi risponda. Lo spero con tutto me stesso.

Ho pensato che rendere pubbliche le sue parole possa servire a qualcosa, forse a rendere qualcuno più umano. Abbiamo così bisogno di umanità, di empatia, di solidarietà… di Amore.

“Kabul distrutta, violata, stuprata.
Kabul sono io.
Un tempo la mia città profumava di spezie, colori, cibi cucinati per strada; ora nell’aria si respira solo l’odore acre della paura.
Kabul sono io.
Io che amavo, dopo il bagno, cospargere il mio corpo di creme vellutate, ora non riconosco più il mio odore.
Puzzo di animale, di essere umano perennemente all’erta.
Dell’odore dei cinque, dieci, troppi uomini che, violandomi, hanno violentato anche la mia essenza.
In questa città sventrata, stuprata come me… e non c’è modo di farmi una doccia.
Doccia che comunque non laverebbe via l’orrore che ho subito e che ogni giorno rischio di subire.
Non so se sia giorno o notte, dentro questa casa dove cerco di non esistere, perché nessuno pensi che ci sia ancora vita qui dentro.
Quale vita poi… Quella sotto a un burqa, che mi impedisce di respirare come vorrei con ogni poro della mia pelle, che mortifica quella femminilità che adesso mi rende vulnerabile ma che prima amavo rivelare.
Quale vita poi… Quella delle giornate tutte uguali, in cui però la noia è un lusso che non posso permettermi, sostituita dal perenne terrore che del mio corpo venga fatto campo di battaglia e inanime trofeo di guerra.
Quale vita poi, se ossessivamente ripeto tabelline e poesie a memoria, imparate quando andavo a scuola, prima che qualcuno decidesse che: no, una donna a scuola non ci deve andare.
Sono… Ero una pianista, le note erano il mio rifugio, le mie fondamenta sicure, l’estasi.
Ho perso il pianoforte sotto una bomba, 20 anni fa.
La mia tastiera allora divenne il cielo, dove le mie mani componevano melodie, tra le stelle.
Col primo stupro mi hanno tolto le note e la voglia di cercarle.
Il silenzio di è impadronito di me, ho smesso anche di urlare sotto i corpi di quegli uomini, quelle bestie.
Kabul è distrutta, violata, stuprata.
Kabul sono io”. 

Beppe Mecconi