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Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Due ragazzini, quattro stelle cadenti

di Beppe Mecconi

Stelle cadenti

Notte dell’11 agosto. San Lorenzo era stato il giorno prima, ma Amelia e Nino, per tutta una serie di circostanze che non staremo a raccontare, non avevano potuto incontrarsi.
Così, la notte successiva, quando una elegantissima cucciola di luna era da poco tramontata dietro le isole ed il buio era ormai perfetto per osservare le stelle cadenti, erano entrambi sgattaiolati, silenziosi come un refolo di vento estivo, dalle proprie abitazioni.
Il sottile imbarazzo che sempre li coglieva al primo sguardo da quando, due settimane prima, avevano iniziato a frequentarsi, svanì come al solito immediatamente.
Stavano bene insieme, l’avevano scoperto per caso, senza volerlo, ma era così, l’avevano capito e guardandosi negli occhi si sorrisero. A lui sembrò che l’azzurro degli occhi di Amelia illuminasse tutto intorno, ma non glielo disse, non voleva metterla a disagio, non voleva mettere a disagio entrambi. “Forse glielo dirò più tardi” pensò.
Decisero che per riuscire a vedere cadere le stelle avrebbero dovuto cercare un luogo meno illuminato. Si avviarono, chiacchierando e ridendo, per una stradina che li avrebbe portati allo spiazzo su un dirupo scosceso sul mare, con solo la notte davanti.
Purtroppo, quando arrivarono, scoprirono che in molti, in troppi, avevano avuto la loro stessa idea, c’era più gente che al mercato e i posti migliori erano straoccupati.
Si guardarono e fecero marcia indietro, videro un viottolo che nessuno dei due aveva mai percorso e lo presero. Si fermarono tra una rete e una siepe di cinta prima che lo stretto sentiero si perdesse nel bosco, erano soli. Smisero di parlare e alzarono gli occhi verso il nero del cielo, migliaia di stelle contraccambiarono lo sguardo.
Pochi secondi e lei: «L’hai vista?» «No. Davvero?» «Sì, breve ma nitida, proprio lì». E indicò uno spicchio di quell’immensità. Lui la guardò con un’aria di rimprovero e invidia, lei rise, prima con gli occhi e poi con il resto del viso. Lui si sentì morire, adorava vederla ridere.
Erano soli, stavano bene, ma non c’era possibilità di sedersi, di stare comodi. Da chissà dove arrivavano voci, come di una festa. Nino disse: «Ricordi il muretto con quel panorama bellissimo? Proviamo ad andarci? Impossibile non ci sia nessuno ma almeno potremo sederci». Lei non rispose e iniziò ad avviarsi. Lui la guardava, si muoveva, pensò, con l’eleganza di una pantera, praticamente al buio, sulle pietre di quel viottolo sconnesso.
Durante il breve percorso si fermarono a bere ad una fontanella e poi arrivarono al muretto di mattoni rossi, incredibilmente non c’era nessuno. Lei si sedette, piroettò e buttò le gambe dall’altra parte, sul giardino, quasi una boscaglia, sottostante. Lui la imitò.
Lei guardava il cielo, lui guardava lei. Ogni tanto lei lo guardava e sorrideva.
«Eccola! Bella! Questa l’hai vista? Ha attraversato tutto il cielo». «No, e ti odio!»
Amelia rise, e si sdraiò sul muretto appoggiando la nuca sulle cosce di lui, come fosse la cosa più naturale del mondo, e forse lo era. E a lui venne naturale ringraziarla per quel gesto.
«Così posso vedere meglio le stelle,» disse «e siamo già due a zero!» Lui trattenne a fatica il desiderio di baciarla.
«Dovresti guardare il cielo, se vuoi vedere le stelle cadenti». «Si, lo so». Disse Nino senza staccare lo sguardo dal suo viso.
«Tre, e quattro!» «Ora ti butto nel giardino, così almeno avrò visto anch’io una stella cadente!»
Amelia strizzò gli occhi e poi rise, si sollevò e disse «Dai, sdraiati tu. Forse riuscirai a vederne almeno una». A lui sembrò un regalo immenso, dimostrava, pensò, più intimità di un bacio.
Posò la nuca sulle sue gambe ma stelle cadenti nei suoi occhi non ne passarono mai, vedeva solo il viso di Amelia, che ogni tanto abbassava lo sguardo e lo guardava sorridendo. Infine posò le sue labbra su quelle di lui. Un dolcissimo bacio a fior di labbra. Poi rimasero in silenzio a fissarsi negli occhi e a lui parve di affondare, o volare, in tutto quel celeste.
Quando si resero conto che era tardissimo si alzarono, si abbracciarono forte, a lungo, poi e tornarono verso il paese, verso le loro case. Forse parlarono forse rimasero in silenzio.
Si salutarono con un bacio vero. Poi, ormai da lontano, lei lo chiamò, alzò quattro dita di una mano e con l’altra, unendo pollice e indice, fece lo zero. Lui alzò il pugno, come a minacciarla, poi si lanciarono un bacio.
Più tardi, poco prima di addormentarsi, a Nino venne in mente che s’era scordato di dirgli del suo sguardo, che illuminava il mondo. Ma era felice lo stesso.