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Luci della città

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Il calcio africano tra campioni e poveri cristi

di Giorgio Pagano

Sao Tomé, Sao Joao das Angolares, ragazzi giocano a calcio in spiaggia, l’unico “campo di calcio” della zona (2015)

Il calcio, lo sport più bello del mondo, è tra i più amati anche in Africa. Ho visto partite negli stadi: lo spettacolo lo danno i calciatori, ma anche gli spettatori, muniti di cornette e di altri strumenti assordanti suonati senza interruzione. Ho visto anche come praticano il calcio la gran parte dei giovani africani: in piazze cementate o nelle spiagge, senza reti, senza palloni veri, ovviamente senza divise…
Ma qual è il rapporto tra il calcio africano e quello europeo? In Africa ho raccolto, su questo punto, storie diverse, che raccontano una realtà contraddittoria.
Da un lato il calcio europeo rappresenta per quello africano la porta per un futuro migliore: sono tante le storie di calciatori africani con alle spalle un’infanzia di estrema povertà che hanno trovato nel calcio il mezzo per un’emancipazione umana e sociale. Ma è proprio a causa di questo immaginario e di questa grande speranza che il calcio viene sempre più spesso utilizzato da cinici sfruttatori: falsi agenti FIFA che arruolano calciatori minorenni con la promessa di un futuro migliore in Europa, tramite il pagamento di ingenti somme di denaro. Trafficanti di esseri umani che, spostandosi per gli Stati dell’Africa Occidentale, persuadono le famiglie a farsi affidare i ragazzi per poi, una volta entrati in Europa, abbandonarli al proprio destino. Si può dire che il continente africano, da sempre “oggetto” di interesse e terra di violenze, usurpazioni e sfruttamento delle ricchezze minerarie o delle riserve auree e petrolifere, è diventato da diversi anni anche un enorme giacimento in cui pescare i calciatori del domani.
Due libri di giornalisti italiani confermano le testimonianze che ho raccolto e spiegano bene le due facce del rapporto tra calcio africano e calcio europeo.
Nel primo, “Pallone nero,” Luigi Guelpa ha raccontato le storie di giocatori che hanno avuto un riscatto sociale, dopo aver conosciuto la miseria o la guerra. Quello strumento meraviglioso che è il pallone ha permesso a parecchi di loro di arrivare al successo, ma senza mai dimenticare le loro origini. Ci sono centinaia di calciatori africani che aiutano i loro Paesi d’origine, che fanno beneficenza o si battono in difesa degli animali, come Yaya Touré, ex Barcellona e Manchester City, che è diventato ambasciatore dell’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) con lo scopo di sensibilizzare la comunità internazionale sulla questione del bracconaggio che sta decimando la popolazione degli elefanti africani. Altri, invece, intervengono per fermare conflitti regionali: per esempio Abedì Pelé, ex giocatore del Torino, che organizzò nel 1992 una cena tra la sua nazionale, il Ghana, e quella della Costa d’Avorio, in accordo con l’allora capitano Gadi Celi, per scongiurare l’imminente guerra tra i due Paesi per questioni di confini marittimi e petrolio.
Ma ci sono anche le storie dei giocatori che il successo non l’hanno proprio conosciuto. Nel secondo libro, “Non dire addio ai sogni”, Gigi Riva ha raccontato la storia di Amadou, che è la storia di tanti, purtroppo. La storia di un adolescente strappato al Senegal da sedicenti procuratori, che con l’illusione di una “porta d’ingresso” tra le stelle del calcio francese spennano la famiglia, e poi abbandonano il ragazzo, una volta trascinato in Francia, in mezzo alla strada. Secondo l’organizzazione Foot Solidaire, che sostiene le migliaia di aspiranti calciatori perduti alla ricerca del sogno -ci informa Riva-, ogni anno ben 15 mila ragazzi vengono strappati alla loro terra e alle loro famiglie con l’illusione del pallone, e soltanto uno su mille riesce davvero a “sfondare”. Gli altri vanno a ingrossare, come Amadou, le fila dell’esercito dei manovali degli ambienti criminali (ma anche dello sfruttamento lavorativo o, addirittura, sessuale), e purtroppo la salvezza non sempre arriva.
Ma ascoltiamo le parole forti di Jean Claude Mbvoumin, ex calciatore del Camerun e oggi in prima linea nella lotta alla “tratta dei nuovi schiavi”. Fu lui, ex-nazionale dei leggendari Leoni Indomabili, quelli che per primi rivelarono al mondo la qualità del calcio africano, a fondare nel 2000 Foot Solidaire:
“Negli ultimi anni siamo passati da 15mila a circa 18mila minori. Bambini e adolescenti, di età compresa tra i 10 e i 18 anni. Praticamente tutti minorenni, prelevati o convinti con l’inganno, con la promessa di sfondare nel mondo del calcio e che invece spesso diventano manodopera a basso costo nelle mani di criminali e sfruttatori. Pagano dai 3 mila ai 10mila euro, e molte famiglie s’indebitano con presunti ‘procuratori’, convinti di assicurare un futuro ai figli. Invece pagano per la loro rovina”.
La trasmissione di Rai3 “Il Fattore umano”, andata in onda il 19 luglio scorso, ha raccontato le storie di coloro che non ce l’hanno fatta. Come O.V, senegalese arrivato a Parigi quando aveva 17 anni, che oggi vive di espedienti in Francia: si è ritrovato in mezzo alla strada dopo che la sua famiglia aveva dato 9 mila euro a un “procuratore”.
“In ogni caso -spiega Mbvoumin- i ragazzi non vogliono più tornare in Africa, poiché le loro famiglie hanno speso un sacco di soldi, rischiano di essere brutalizzati, c’è anche la vergogna del fallimento”.
Il fenomeno migratorio collegato strettamente al calcio ha portato l’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, a parlare di “commercio di schiavi moderni nei giovani calciatori africani”.
Il dramma, quindi, non può essere più negato. Ognuno -forze dell’ordine, FIFA, società calcistiche- deve reagire. In Africa, dove la corruzione è molto diffusa anche nelle società calcistiche, e in Europa. Ma chi pensa a costruire campi di calcio in Africa? E poi: se è giusto che nel mondo globale ci sia la possibilità per il calciatore africano talentuoso di giocare in Europa, è anche giusto preoccuparsi perché non tutti i giovani africani abbandonino il loro continente, tanto più che in Europa non potranno giocare certo tutti. La fuga dei giovani calciatori mina lo sviluppo del calcio in Africa, privandolo di “risorse” sia umane che economiche con conseguenze sulla qualità delle competizioni africane. Prima il calcio, in Africa, non era conosciuto: l’abbiamo esportato con il colonialismo. Oggi è uno sport amatissimo anche in quel continente: ma il neocolonialismo, con i suoi complici africani, limita lo sviluppo di un calcio locale. Anche lo sport rivela che oggi il continente africano è visto ancora e sempre come un continente da depredare.

Post scriptum:
Dedico questo articolo al partigiano Ciro Domenichini “Fulmine”, uno degli “ultimi”, che ci ha lasciato pochi giorni fa (su di lui si veda, in questa rubrica, “Fulmine” contro il “fascismo eterno”, 14 aprile 2019). Caro “Fulmine”, sabato ti ho pensato sul Gottero, dove commemoravo il rastrellamento del 3 agosto 1944. Dopo la pandemia siamo tornati in tanti nella nostra “montagna sacra”. Nelle scorse settimane in tanti abbiamo ricordato Piero Borrotzu “Tenente Piero”, e poi Dante Castellucci “Facio”… Ogni volta mi conforta sapere che quell’esperienza di quasi ottant’anni fa, difficile, fragile, romantica, coraggiosa, nonostante tutto è lì, e riemerge come un appiglio. Come la cosa migliore che abbiamo avuto, e che abbiamo.