Quisquilie e meraviglie

Quisquilie e meraviglie

Un lupo mannaro americano a Spezia

di Beppe Mecconi

Non moltissimi anni fa in un paese del nostro bel golfo nelle notti più buie si aggirava un lupo mannaro.
Da tempo, in quella calda fine d’estate del’77, si sentivano laceranti ululati provenire dal bosco ormai inselvatichito che iniziava immediatamente dietro le ultime case; le vecchie del paese a quelle cupe urla furono le prime a farsi il segno della croce, loro ricordavano storie antiche e il timore covava in loro. Gli uomini e i ragazzi, maschi e femmine, ridevano, si prendevano gioco di quegli assurdi, a parer loro, timori. Ma gli ululati quasi ogni notte ricominciavano e lentamente il terrore si insinuò in ognuno di loro. Cominciarono anche a guardarsi in cagnesco, sospettando l’uno dell’altro, ma quella possibilità fu in ultima analisi esclusa perché, dopo minuziosi controlli, si erano assicurati che nessuno mancava all’appello nelle notti in cui il mostro faceva sentire la sua orribile voce.
Fu organizzata quindi una riunione nel Bar-Tabacchi, il luogo di ritrovo più popolare e frequentato del paese, cupo di fumo e luci ingiallite dal tempo.
Erano presenti tutti i notabili più accreditati, tra i quali spiccavano: Gigi Fainà, balista a pagamento che per un quartino di rosso o un pacchetto di Nazionali inventata le frottole più mirabolanti; Guatemala; Fistola; Autocisterna; Rotaia il Mercenario, famoso, oltre che per i misteriosi trascorsi in Angola, per aver mangiato, per scommessa, una cavalletta apparsa, povera lei, sul tavolo del Bar-Bigliardo dove boccette e bestemmie volavano in pari quantità e Bella Latta, che aveva pitturato la sua 124 Sport di arancione con le bombolette alla fermata dell’autobus e su quel muro, per anni, rimase la silhouette in negativo di quell’auto, forse il primo esempio di Street Art al mondo.
Dopo approfondite e accese discussioni si decise che il lupo mannaro esisteva davvero e che le più a rischio erano le giovani donne in quanto l’oscura creatura, che si aggirava nottetempo nei misteriosi valloni sopra il paese, era ghiotta del loro sangue; mescolando così abilmente il mito del Vampiro con quello del Licantropo, perché in questi casi è sempre meglio abbondare!
Le ragazze, quindi, che prima scherzavano su quella storia così assurda in quegli anni, ormai uscivano soltanto in gruppo e non si allontanavano mai troppo dal piazzale della chiesa.
La vita nel paese, al tramontar del sole, era diventata impossibile. Nessuno usciva più di casa, solo i più temerari, con una roncola serrata nel pugno nella tasca dei calzoni e guardandosi continuamente le spalle, si avventuravano nei bar.
I giornali cominciarono a parlarne, prima i locali poi i nazionali, finché una mattina piombò lì un’auto della RAI. Il giornalista e gli operatori si misero alla ricerca di qualcuno da intervistare, ma non fu facile riuscire a trovare qualcuno che avesse voglia di parlare dell’orrore che da quasi un mese tormentava gli animi di quelle persone. Infine si fecero avanti un ragazzotto noto con il soprannome di Canna (che non fu preso molto sul serio) e un vecchio che disse di aver visto il mostro, e che aveva denti come quelli del coccodrillo.
Il servizio passò sul TG nazionale delle 12.30, l’intervista ebbe bisogno di essere sottotitolata in quanto il testimone oculare sapeva parlare solamente lo spezzino stretto, in effetti l’unica parola comprensibile al resto d’Italia fu “coccodrillo”.
Ma ormai i tempi erano maturi, e i più coraggiosi organizzarono la caccia al mannaro!
In quattro salirono sul 124 sport arancione armati di doppiette e forconi, sul tetto legarono, come totem propiziatorio un gigantesco pelouche di Kong Kong, evidente altra contaminazione tra mostri cinematografici, e sulle fiancate appesero due cartelli sui quali, a lettere cubitali, si leggeva, da una parte: ANDEMO A PIGIAE ER LUPO, e dall’altra: AOTRO CHE BALE.
E il safari cominciò. Appena iniziarono le urla” i quattro senza paura” si addentrarono nella boscaglia, piano piano, con estrema cautela si avvicinavano a quegli agghiaccianti ululati.
Ad un certo punto le nuvole che fina a poco prima avevano oscurato la luna si dissiparono e, tra i tronchi contorti degli alberi, scorsero qualcosa. Una figura indefinita avanzava piegata su sé stessa, orribile a vedersi.
I due con le doppiette imbracciarono i fucili e presero la mira, erano pronti a far fuoco quando Rotaia disse: “Fermi, g’è n’omo!” Ma Fistola e Guatemala non fecero in tempo a fermarsi.
Per fortuna quello che avevano bevuto per darsi coraggio aveva reso la loro mira indecorosa e il bersaglio fu abbondantemente mancato.
Al rumore delle fucilate il presunto lupo mannaro si buttò per terra e si mise a piangere in una lingua incomprensibile. I quattro lo afferrarono e lo caricarono sull’auto, tenendolo di mira con un forcone. Arrivati nella piazza suonarono il clacson e tutto il paese si radunò. Tutti guardavano con timore quello strano essere tutto sporco di fango, alcuni gli allungarono anche un paio di calci ripensando alle notti di terrore che gli aveva fatto passare, ma poi la compassione prese il posto della paura e qualcuno cominciò a dargli una sommaria ripulita. Intanto Autocisterna aveva chiamato i carabinieri che alla fine lo presero sul serio e si presentarono con una camionetta. Imbarcarono “il mostro” e lo portarono in Centrale. Il proprietario del Bar-Tabacchi attirò l’attenzione urlando che per festeggiare avrebbe offerto da bere a tutti, ma quando vide che proprio tutti si avvicinavano all’ingresso cambiò idea e chiuse in fretta la saracinesca.
Ognuno tornò comunque contento a casa, quella notte avrebbero finalmente dormito serenamente.
E il lupo mannaro? I carabinieri ci misero poco a scoprire che il tizio era un sottufficiale della Marina Militare americana, che all’epoca aveva un paio di navi ormeggiate nel porto. Tutte le sere di libera uscita si ubriacava come un topo nelle bettole e poi, per evitare di essere acchiappato dalle ronde della Military Police, note per non andare troppo per il sottile quando beccavano un marinaio ubriaco, si nascondeva con una bottiglia di Bourbon nel bosco ed iniziava ad urlare come un pazzo tutta la sua rabbia verso il mondo, lui avrebbe preferito starsene con la sua Mery in mezzo ai campi di grano del Nord Dakota, altro che “Vieni in Marina scoprirai il mondo”.
Pochi anni dopo, nel 1981, uscì il bel film “Un lupo mannaro americano a Londra” e Gigi Fainà, dopo pagamento di un caffè corretto al maraschino, asserì che l’idea a John Landis gliel’aveva data lui.