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Luci della città

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I fatti di via Torino

di Giorgio Pagano

Livorno, la targa all'ingresso dei resti dell'ex teatro San Marco, dove il 21 gennaio 1921 fu fondato il Partito Comunista d'Italia (2021)

Cento anni fa, il 16 maggio 1921, avvennero “i fatti di via Torino”. Così li rievocò, nel 1973, Tommaso Lupi, che nel 1921 aveva vent’anni ed era in via Torino:
“Il giorno prima, domenica, si votò in tutta Italia per il rinnovo della Camera dei deputati, e malgrado gli episodi di violenza, i ricatti e i soprusi contro le forze del lavoro e i contadini di sinistra in ogni provincia, il Partito Socialista riportò ancora una grande vittoria e lo stesso giovane Partito Comunista ebbe i suoi rappresentanti in Parlamento. Esultanza nei luoghi di lavoro, per cui si discusse sulla opportunità di far uscire gli operai dalle fabbriche e organizzare nel pomeriggio una pubblica manifestazione per festeggiare i risultati. Successivamente l’iniziativa venne scartata dai partiti della sinistra e dalle organizzazioni sindacali.
Nel pomeriggio, un gruppo di giovani e di giovanissimi decise di sfilare per le vie cittadine con le bandiere. La polizia però era in allarme e pattuglie di carabinieri e di guardie regie sostavano nei punti strategici della città pronti ad intervenire nel caso si verificassero incidenti o venisse comunque turbato l’ordine pubblico.
La provocazione avvenne in via Torino nei pressi del Circolo ferrovieri. Mentre il corteo dei giovani sfilava e si dirigeva verso piazza Ramiro Ginocchio, dalla finestra di una casa partirono alcuni colpi di arma da fuoco che ferirono due carabinieri facenti parte di una pattuglia che seguiva a una certa distanza il corteo. La reazione dei carabinieri, comandati da un maresciallo, fu pronta e micidiale. Credendo che i colpi d’arma da fuoco fossero partiti dai dimostranti, spararono sul corteo con i fucili a ripetizione e molti giovani caddero, chi morto, chi ferito. Vi fu uno sbandamento, un fuggi fuggi generale. La situazione divenne ancora più tragica per l’intervento di un’altra pattuglia di carabinieri che si trovava dalla parte opposta e che sparò anch’essa prendendo così tra due fuochi il corteo. Due giovani morirono quasi subito, altri all’indomani. Morti e feriti, tutti giovanissimi, di 16, 18, 20 anni”.
Questi i loro nomi: Gino Capecchi, Pasqualino Blandi, Virgilio Musso, Vincenzo Guala e Mario Cozzani. Erano giovani operai, socialisti e comunisti. Come lo stesso Lupi: lericino, entrato nelle file della gioventù socialista fu assunto al lavoro nel Cantiere navale del Muggiano, si impegnò nell’attività sociale e sindacale sotto la spinta di Angelo Bacigalupi, primo deputato operaio spezzino, partecipò nel 1920 all’occupazione del Cantiere, entrò a far parte delle “guardie rosse” e, nel 1921, alla sua fondazione, del Partito Comunista d’Italia.
Lupi, nell’articolo, rievocò il seguito di quella tragica giornata: “l’inesatta versione degli avvenimenti” da parte della “stampa fascisteggiante”, la lettera della Sezione socialista della Spezia per smentire questa versione, fino a quando “il Tirreno”, “smentendo le precedenti affermazioni, disse che la polizia operò subito delle perquisizioni nella casa da dove partirono i primi colpi arrestando sette persone trovate in possesso di armi da fuoco; tra esse un fascista”.
La lettura dei giornali dell’epoca e altre testimonianze -come quella che mi rilasciò negli anni Ottanta Armando Gatti, nel 1921 giovane comunista- confermano il racconto di Lupi. Quella del 16 maggio fu una manifestazione spontanea dei giovani socialisti e comunisti, pacifica, al canto di “Bandiera rossa”. A sparare furono altri, da una casa dove c’erano dei fascisti (due, secondo lo storico Antonio Bianchi). Seguirono due giorni di sciopero generale e di pericolosa tensione in città, fino agli imponenti funerali, seguiti da oltre trentamila spezzini.

LA SCONFITTA SI AVVICINAVA
I partiti e le organizzazioni della classe operaia avevano ancora forza e prestigio, ma la loro sconfitta si avvicinava. Dopo l’occupazione delle fabbriche nel 1920 e le divisioni manifestatesi nel Partito Socialista, erano maturate le scissioni. La prima fu quella del gennaio 1921, con la nascita del Partito Comunista d’Italia. Intanto la crisi economica e la disoccupazione avanzavano, debilitando la sinistra e favorendo i reazionari, cioè tutti quei gruppi -militari, industriali, agrari- che avevano assistito impotenti all’ondata sovversiva del 1919-1920 e sognavano il ritorno del vecchio ordine autoritario. Giovanni Giolitti, con la sua politica di equilibrio, per queste forze era ormai un uomo del passato. L’”uomo nuovo”, energico e coraggioso, era per loro Benito Mussolini, che aveva dato vita al movimento fascista.
Il debutto in grande stile delle squadre fasciste era avvenuto a Bologna, roccaforte socialista, il 21 novembre 1920. Da allora fu tutto un seguito di attacchi alle Camere del Lavoro, di saccheggi, di spedizioni punitive. A Spezia le sedi della Camera del Lavoro e dell’USI, il sindacato anarchico, furono devastate il 27 febbraio 1921. Il giorno dopo fu proclamato lo sciopero generale: le guardie regie caricarono un gruppo di operai, uccidendo l’operaio anarchico Adolfo Olivieri. Il 27 marzo i carabinieri uccisero un altro anarchico, Dante Carnesecchi.
Eppure, come ricordato da Lupi, il 15 maggio le elezioni premiarono ancora la sinistra. A Spezia il PSI ottenne il 33,4% dei voti, il PCd’I l’8,9%, i riformisti l’1,4%. I popolari (cattolici) ebbero il 7,9%. Ma questa forza maggioritaria era divisa. Subito dopo i fascisti ripresero i loro raid. Armando Gatti mi raccontò di quando fu bastonato, fino allo svenimento, in piazza del Mercato, nel maggio del 1921, qualche giorno dopo “i fatti di via Torino”. I fascisti trionfarono anche perché la loro violenza fu resa possibile dall’omertà e in certi casi dalla complicità dell’esercito e del governo. Anche gli avvenimenti spezzini lo confermano. La classe dirigente liberale era convinta di poter utilizzare il fascismo, che si sarebbe presto dissolto. Ma fu una tragica illusione, che portò alla marcia su Roma e a una feroce dittatura, che durò un ventennio.

Post scriptum:
L’articolo di oggi è dedicato a Moussa Balde, che avrebbe compiuto 23 anni il 29 luglio. Veniva dalla Guinea, era in Italia dal 2017. Viveva di lavori precari e di elemosina a Ventimiglia. Qui è stato violentemente pestato da tre uomini il 9 maggio. Chiuso dal giorno dopo nel Cpr (Centro permanenza per i rimpatri) di Torino -luogo famigerato di detenzione di “vite di scarto”- il 23 maggio Moussa Balde si è impiccato nella sua stanza.
Sognava un’altra vita, un lavoro. Non poteva rientrare nel suo Paese. Diceva che sarebbe stato ucciso dalle stesse persone che lo avevano spinto a scappare, ha raccontato all’”Ansa” Marco, un suo amico: “Era un ragazzo molto intelligente: in pochi mesi ha imparato l’italiano e preso la terza media a Imperia. Era però anche tormentato e impaziente, faticava ad aspettare”.
Altre persone che lo hanno conosciuto ne ricordano la grande sensibilità e l’interesse per la politica. Sulla pagina del centro sociale imperiese “La talpa e l’orologio” c’è un’immagine in cui sorride con addosso la maglietta “Imperia antirazzista”. Quell’Imperia civile che lo ha ricordato, nei giorni scorsi, con una veglia.
Moussa era davvero uno dei tanti, tantissimi, che sono da noi “con la speranza in cuor”:
Così si raccontava Moussa Balde, il 23enne morto suicida nel CPR di Torino – YouTube
C’è, nella sua morte, il segno di una condanna inespiabile del nostro mondo. Per le autorità che ne hanno deciso la detenzione senza interrogarsi sull’ignominia che compivano. Per gli uomini di governo che dichiarano pubblicamente, senza pudore, che ci dobbiamo servire dei dittatori perché ci sono utili a tenere lontani da noi quelli come Moussa.
La sua morte “pesa come un macigno su tutti noi”, ha scritto il sociologo Marco Revelli. Moussa Balde era un uomo: africano, clandestino, povero, sofferente nell’anima. Ed è stato trattato come una cosa. Corriamo il rischio di abituarci al veleno di una società mostruosa, e di esserne intossicati.