LA REDAZIONE
Scrivici
PUBBLICITÀ
Richiedi contatto

Sprugoleria

Sprugoleria

La vernaccia è roba nostra

di Bert Bagarre - prima parte

Vernaccia

Se chiedessi di alzare la mano a chi fra i lettori sommelier apprezza la vernaccia, certo si drizzerebbe una selva di braccia. Però, sono altrettanto convinto che se domandassi perché il vino porti quel nome, vedrei solo palme desolatamente calate verso il basso.
Male, proprio male, perché quel vitigno è indigeno, roba nostra, nativo di un feudo che Sprugolandia detiene sulla costa che dà sul mare aperto. Una volta la quarta delle Cinque Terre, che poi con Levanto sono sei, la chiamavano Vernassa, toponimo da cui salta fuori la vernaccia che, quando la degusta, si lecca i baffi anche chi si rade ogni mattina sotto il naso.
Origine nobile e con altrettanto paludati precedenti letterari.
Tralascio padre Dante che nel Purgatorio fra i troppo golosi mette un Papa avido di “anguille di Bolsena e vernaccia” senza nominare, tuttavia, a quale località il vino ascriva le sue origini.
Boccaccio, invece, la fa coprotagonista di un paio delle novelle del Decameron.
Ghino di Tacco, brigante di Radicofani tanto in auge ai tempi della Prima Repubblica, la prescrive come cura contro il mal di stomaco all’abate di Cluny e gli effetti, pare incredibile, sono quanto mai salutari tanto che il Ghino, che è sì un ladrone, nell’occasione appare gentiluomo che fa opere di bene.
Un paio di giornate prima narra di Calandrino e dei suoi amici che gli raccontano di una località dove “corre un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua”: certo un bel posto e sai quanti deciderebbero viverci nel paese di Bengodi!
In ogni caso, senza calarsi nella fantasia, per gustarsi un buon vino a quei tempi là tutti consigliavano un tour fra i poggi contenuti fra il Mesco e Portovenere dove imperava il Rossese vulgo Ruzzese.
Trattasi di un liquore di cui parla, fra gli altri, Sante Lancerio che alla metà del Cinquecento faceva di mestiere il “bottigliere” di Papa Paolo III Farnese. Dice che il vino arriva a Roma da Monterosso contenuto in “piccioli caratelli” e che per gustarne appieno la bontà occorre che sia “fumoso e di grande odore, di colore dorato, amabile e non dolce”. Tuttavia, Sua Santità non lo beveva preferendo degustarlo facendoci “la zuppa alle gran tramontane”: trovato il rimedio contro il freddo. Invece, “alla stagione del fico bono”, consumava il frutto “mondo e inzuccherato”, annegato nel vino di casa nostra purché fosse “dolce et amabile” affermando che un tale piatto è “gran nodrimento alli vecchi”.
Insomma, Sprugolandia e le sue pertinenze erano famose nel mondo anche se produrre vernaccia e ruzzese costava fatica. Ne diremo.

(continua)

BERT BAGARRE