LA REDAZIONE
Scrivici
PUBBLICITÀ
Richiedi contatto

fiorinoscritto

Divagazione sui batteristi

Import 2021

Per chi non lo conoscesse, Bill Bruford è il batterista storico di band progressive-rock come Yes e King Crimson.

Tre anni fa feci un sogno strano: ero Bill Bruford e stavo suonando come turnista dei Genesis durante la loro esibizione parigina del 1976 con la quale, negli auricolari, mi ero addormentato. Nel sogno era tutto abbastanza credibile: luci, casse spia, emozione, sudore, perizia tecnica, backstage, abiti, inglese fluente. Il sogno si trasformò in un incubo non appena mi destai; meglio, nel momento in cui Bill Bruford si destò nei miei panni: fu allora che iniziò il suo l’incubo, un incubo che, in qualche piega di uno spazio-tempo parallelo, dura tutt’oggi.

Quando Bruford si svegliò nel mio corpo, si rese immediatamente conto (in perfetto italiano) di essere finito a 42 anni e a 964 km di distanza dal luogo del concerto parigino, precisamente nella mia stanza, che tre anni fa era un soppalco mansardato in casa di mia madre, dove ero tornato a vivere in un momento scomodo della mia esistenza, fatto di tour al sud Italia, instabilità affettiva al centro Italia e disagio generalizzato al nord Italia, sempre ammesso che Spezia sia un possibile nord Italia.

Di tutte queste cose Bill Bruford, che non è certo uno sprovveduto, si rese conto immediatamente e la prospettiva di vivere il resto della vita intrappolato nel corpo di un cantautore italiano squattrinato e dallo scarsissimo potenziale commerciale, distillò, dalla mia fronte, il suo sudore freddo. Poveraccio Bill Bruford, pensai, tornando lentamente in me. Tutto questo accadeva in piena notte, dopo un risveglio brusco, seguito da un progressivo ritorno alla calma, fissando un punto a caso del soffitto ligneo diagonale.

Sono sinceramente costernato, caro Bill, per quanto accaduto; per quanto non sia tanto la prospettiva di un fallimento ad essere insostenibile, quanto il fatto stesso di non riuscire ad accettarla, pur avendola messa in conto. Deve essere andata certamente meglio al tuo collega Charles Hayward. Col suo pensiero musicale matematico, elettronico e ipnotico, Hayward è l’anello di congiunzione tra progressive-rock e post-punk. Co-fondatore di Quiet Sun e This Heat, egli è tra i protagonisti della cosiddetta “proto new-wave”, temperie che fece da raccordo tra kraut-rock e neo-psichdelia, tra i Neu! e i Sonic Youth.

Nel 2017 Charles Hayward suonava in duo con Thurston Moore dei Sonic Youth, in un club di Reggio Emilia. I miei amici Andrea e Cristoforo (due terzi dei Repetita Iuvant) andarono a sentirli. Erano le uniche persone tra il pubblico che, pur sedute, si muovevano seguendo il ritmo della musica suonata dal duo. Furono perciò notati da Hayward, il quale, a fine concerto, durante le pubbliche relazioni di rito, confidò apertamente ai miei due amici di aver modulato il ritmo traendo ispirazione dalle loro movenze, a loro volta ispirate dai ritmi dello stesso Hayward, come in un circuito che si auto-alimenta.

Capito perché sono importanti i concerti? Capito perché sono importanti tanto per chi vi assiste quanto per chi si esibisce? Capito la dimensione alchemico-epifanica della musica dal vivo? Non l’avete capita? Fa niente. D’altronde non tutti i batteristi sono così in armonia con l’universo come Charles Hayward. Di sicuro non lo è Billy Cobham. Una volta, alla fine di un sound-check, un paio d’ore prima di esibirsi sul palco di piazza Mentana per il festival Jazz della Spezia, osò rifiutare un autografo.

Protagonisti dell’accaduto, io e il già menzionato Andrea. Avevamo 18 anni. Andrea aveva con se una copia de “I sotterranei” di Jack Kerouac. Billy Cobham era impegnato in un’intervista. Mi avvicinai per chiedere un autografo sul frontespizio del libro ed egli non seppe fare di meglio che alzare la mano in segno di stop, liquidandoci con un secco “Not here!”.

Andrea mi tolse immediatamente il libro dalle mani e girò i tacchi. Un secondo dopo, feci lo stesso. “Ma come?” pensammo all’unisono, “due ragazzi così intellettualmente precoci vengono a chiederti un autografo e tu gli rispondi not here, senza nemmeno guardali in faccia?”. Inutile ripetere lo sproloquio razzista totalmente casuale che sgorgò dai nostri animi, una volta mollato lo scorbutico afro-americano. Una sola cosa avremmo dovuto rispondergli: “and where?”.

Nell’immagine, l’artwork di “Deceit”, album dei This Heat del 1981.