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C’è qualcosa tra Portovenere e Riomaggiore?

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In realtà non me lo sono mai chiesto. Sapevo solo che quella zona si chiama Tramonti. Finché l’autunno di due anni fa, un amico convertitosi al trekking in tempi relativamente recenti, mi dice: “ti devo assolutamente portare al Persico!”. Così, da Campiglia, siamo scesi alla spiaggia del Persico: 400 metri di dislivello spalmati su 500 metri di scalini irregolari in arenaria, alti mediamente 30 centimetri. Stress osteo-muscolare a scendere, stress cardio-respiratorio a salire.

“Bellissimo ma pesissimo” e “pesissimo ma bellissimo” sono i mantra principali di questo cammino, fatto di panorami struggenti, prospettive vertiginose, agavi fioriti, vigneti impossibili, scale megalitiche e fiabesche casette in pietra. Quello che più commuove e consola di questi luoghi è il perfetto equilibrio, la perfetta simbiosi tra elemento naturale e intervento umano, tanto che in certi punti si fatica a capire dove finisce il primo e dove inizia il secondo.
 
Lo stesso discorso vale per Schiara, Navone, Monesteroli e Fossola, gli altri quattro nuclei abitati, per un totale di altre cinque terre che non ce l’hanno fatta – come ama ribadire il mio amico – altre cinque terre alle quali la storia ha negato le maiuscole e che, nel loro insieme, formano Tramonti: trans montes, oltre il monte. Verso il mare e sul mare. Quest’estate, lavorando la sera, non potevo mai partire e appena venivano a trovarmi amici lontani, li portavo immediatamente a fare qualche sentiero di Tramonti.
 
Era una specie di auto-regalo rateizzato per il mio quarantesimo compleanno. Sono nato e cresciuto qui, eppure vedevo questi posti per la prima volta. Me ne sono innamorato come ci si innamora di qualcuno che sentiamo di conoscere e cercare da sempre. Il protocollo era sempre lo stesso: trekking a scendere, bagno rigenerante in mare, trekking a salire, aperitivo rigenerante a Campiglia.
 
L’aspetto singolare di questi luoghi è la diversità microclimatica distribuita sui quei 500 metri di dislivello che separano il mare dal colle del Telegrafo – il principale punto di arrivo o di partenza dal monte Parodi. In pochi minuti si passa dagli umori boschivi del primo entroterra, regno di pini, castagni e sugheri; alle fragranze di arbusti caratteristici delle coste del Sud, come elicriso, rosmarino, salvia e timo (che spezzini e limitrofi chiamano tremoèo). Per finire con piante grasse quali agavi, mesembriantemi, fichi d’India.

La storia di questi luoghi è semplice: fin dai primordi, i villaggi di Biassa e Campiglia, forti della posizione strategica ma deboli di risorse naturali, spostarono le proprie attività agricole verso le precipitose riviere sul mare, dove, su un terreno più ricco e coltivato a spalti sovrapposti, solo una pianta a radice profonda come la vite poteva trovare l’ambiente ideale. Nacque così la terra dell’uva delle Cinque Terre. Si crearono fasce di contenimento (i famosi muretti a secco) e, contemporaneamente, scale in blocchi di arenaria (incastrati anch’essi senza calce) che, scendendo al mare, permisero la coltivazione dei vigneti. Ancora oggi, le tracce di queste antichissime coltivazioni arrivano fino a dove le frane e le mareggiate lo consentono.

La loro storiografia, invece, è pressoché impossibile: più antica notizia storica riguardante il territorio di Tramonti risale al 1161, quando i signori di Vezzano vendettero parte dei terreni dell’Albana e del Persico ai monaci del Tino. Eppure, lo schema di queste costruzioni ha la stessa forza e necessità del periodo megalitico, di cui il menhir di Schiara (meglio noto come “Masso del Diavolo”) rimane il testimone più accreditato. Abbiamo così due indizi per formulare una datazione anteriore al 1161: la presenza umana in epoca preistorica, testimoniata dal menhir di Schiara, e la tecnologia edile tipicamente megalitica, messa in campo dagli antichi coltivatori delle terre di Tramonti.

Due indizi fanno una coincidenza ma non fanno una prova, tanto più se è lecito supporre come una simile tecnologia sarebbe stata adottata anche in epoche di gran lunga successive a quella preistorica, come a quella romanica. E quando, nel secondo dopoguerra, si poté disporre di tecnologie capaci di rinnovare radicalmente le infrastrutture, Tramonti conobbe la migrazione dei suoi coltivatori verso la città, con il conseguente abbandono di vigneti, muretti e scale. Tuttavia, questa vaghezza cronologica, questo passato senza tempo, altro non fa che collocare la vicenda fondativa di queste terre nella sfera del mito.   

Bibliografia e sitografia essenziale:

– Cesare Ferrari, “Le Cinque Terre e la riviera spezzina di ponente”, Stringa Editore, Genova, 1984
– Gino Ragnetti, “Fantasmi. Città paesi e borghi scomparsi in provincia della Spezia”, Edizioni Giacché, La Spezia, 2020
– Giancarlo Natale, “Storia e cultura di Tramonti” http://pertramonti.it/ 2016