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Jacopo Benassi Vuoto. Arte e vita di un fotografo spezzino

di Francesca Cattoi

Jacopo Benassi

Chi segue questa rubrica, sa che nonostante sia dedicata a far emergere figure meritevoli spezzine nate dopo il 1980, ci sono state già due interviste, Marco Ursano e Cristiano Guerri, il cui percorso artistico e di vita, è legato alla mia generazione. La formula, però rimane quella: le domande le faccio insieme ai Millenials, quindi ho chiesto a Francesca Lombardi (La Spezia, 1996), che ha competenze su teatro, performance e giornalismo culturale, e Thomas De Luca (La Spezia, 1982), colonna portante del quotidiano online Città della Spezia, che mi ospita ormai da due anni.
Questa volta, in coincidenza di una importante mostra che gli dedica il Centro Pecci, Prato, parlo con Jacopo Benassi (La Spezia, 1970), che conosco da almeno 25 anni e che credo di aver considerato da sempre un artista, qualunque cosa volesse significare tanti anni fa questa definizione per me. Ho quindi seguito il suo lavoro da allora e, come gli ricordo sempre, sono la sua maggiore collezionista, tra le foto comprate e che mi ha regalato. Una di queste è un ritratto di lui e suo fratello Cristiano, in primo piano, forse trentenni, appeso nel corridoio davanti alla cucina. Mi sono accorta, solo in questi giorni, quanto la sua visione mi abbia accompagnato in tutti questi anni: ho una foto di due bambini del 1997 vicino al divano, un mio ritratto, da lui scattato durante una performance organizzata per la fiera di San Giuseppe alla fine degli anni novanta alla Silvio Pellico in Piazza Verdi e delle sue ciabatte con tacchetti da calciatore in teca. Una presenza, forse ingombrante, nel mio quotidiano. Il suo percorso di vita si è intrecciato a quello artistico. Non si è mai risparmiato, mai indietreggiato, forse difficile vedere la purezza della sua visione, nel suo fisico imponente e trasandato e nel suo carattere tirannico, diretto e folle allo stesso tempo.

Francesca Cattoi: Ciao Jacopo. Iniziamo, con la città e il tuo rapporto con essa. Quali tratti del tuo essere spezzino, dell’aver eletto fino ad ora La Spezia come città in cui vivi, ritrovi come più determinanti per la tua fotografia?
JB: “Io non vivo a La Spezia, vivo in Piazza Brin, è li che mi ricarico. Mi ricordo che Paolo Sorrentino senza che gli dicessi nulla, durante la lavorazione degli Aspetti Irrilevanti (libro uscito per Mondadori nel 2016, un dialogo tra i racconti del regista romano e le fotografie di Benassi), mi disse che stavo fotografando troppo in Piazza Brin, così incominciai a girare in Italia per scattare le foto che, in parte, sono finite, insieme a quelle scattate qui, nel libro menzionato”.

FC: Alla Spezia, sei, e sei stato, uno dei protagonisti della scena culturale. Puoi fare un bilancio?
JB: “Kronstadt, Sergio Fregoso, Btomic,…, dopo non so cosa sia successo, penso che vi meritiate PIN, che non so cosa sia, ma già dalle immagini che ho visto in giro, sui social, mi fa venire la pelle d’oca (“faceva in effetti venire la pelle d’coca”, scusate mi sento di appoggiare questa affermazione! FC)… Povero Centro Allende … rimpiango quando andavo alle mostre comunali e trovavo Sarti, il tuttofare che allestiva le mostre e accoglieva gli artisti con la sua asprezza spezzina, ma competenza operativa. Sapere che potrebbe diventare ristorante per love boat, mi fa pensare che alla Spezia siamo messi male! Contenti voi…”.

TDL: Cinquant’anni, 25 dei quali con una macchina fotografica in mano. Da internet, ai telefonini ai social: negli ultimi due decenni è cambiato quasi tutto. Ma il tempo e la società sono fuori dalle tue fotografie o comunque non si percepiscono come elementi fondamentali. Perché questa scelta?
JB: “In realtà sono passati 32 anni da quando ho fatto il mio primo workshop con Sergio Fregoso, l’uomo che mi fece vedere! 25 anni sono da quando ho fatto coming out e ho incominciato a guardare il mondo come era veramente, con la mia luce. Non esiste una scelta nel mio lavoro. È come decidere quando mangiare, viene naturalmente”.

Francesca Lombardi: La rappresentazione dell’omosessualità e dei kink sessuali è esplicita nel tuo lavoro, il risultato è quello di operazioni artistiche dai forti tratti politici. Che cosa vuol dire oggi produrre arte “politica”? Ti ritrovi in questa etichetta?
JB: “Non ci penso, non mi etichetto, mi sento una persona che rivendica un suo stato d’animo, in parte anche un suo malessere, che può essere interpretato dagli altri come un gesto politico, ma dal momento che vai contro i canoni estetici, fai già politica”.

FC: Qual è ad oggi la tua definizione di fotografia? Cosa ti spinge ancora oggi a fotografare a fare arte?
JB: “Per me oggi la fotografia è la cornice, tutto quello che non è la foto stampata. Diciamo che se non avessi avuto la fortuna di avere uno studio, forse avrei già smesso di fotografare. La dimensione dello studio, dove c’è il tuo lavoro, i tuoi attrezzi, ti dà una visione diversa, ti fa vedere il tuo lavoro in maniera diversa, cambia, cresce…”.

TDL: Instagram è il trionfo delle fotografie: ritoccate, filtrate, ritagliate, animate… cosa pensi di questo social? E’ un distillato della società dell’immagine o un mero strumento di socialità che, utilizzato in maniera distorta, ha portato alla nascita dei discutibili influencer?
JB: “Per me è fondamentale. tutti quelli con cui lavoro sono lì. Devo dire che mi fa risparmiare in viaggi, anche se mi piace viaggiare! Comunque grande invenzione, per i fotografi è una livella che mostra i propri limiti”.

FL: Il corpo sembra giocare un ruolo fondamentale nel tuo modo di fare arte. Che cos’è per te il corpo dell’artista e più in generale la corporeità come dimensione performativa?
JB: “Mi ispiro ad una frase di Trisha Brown, una ballerina e coreografa statunitense, che dice che anche cadere è danzare. Il mio corpo è in scena al di fuori dei canoni estetici della bellezza, della danza, della musica e della performance stessa. Io riesco goffamente a muovermi attraverso la macchina fotografica e a creare un suono, una danza ed anche un’immagine facendo sì che il mio corpo riempia completamente lo spazio”.

FC: Il Centro Pecci, Prato, ti ha dedicato una mostra personale inaugurata l’8 settembre e che resterà aperta fino all’29 novembre, a cura di Elena Magini. Come hai lavorato per la selezione delle opere e per la costruzione del percorso espositivo ora visibile nell’istituzione toscana?
JB: “Ho deciso solo di svuotare lo studio. Abbiamo messo insieme le foto creando una sorta di percorso che parte da quando ho lo studio. Io da subito ho pensato meno alle foto da esporre e più al progetto di installazione del vuoto. Avessi potuto essere radicale fino in fondo, avrei messo tutto al centro dello spazio espositivo. Prima o poi lo farò! Al momento non sopporto più le fotografie appese!”.

FL: Kinkaleri è un collettivo teatrale che lavora molto nell’ambito del performativo e della ricerca coreografica. Once More – il vostro nuovo lavoro – è andato in scena allo Short Theatre quest’anno. Puoi raccontarci come è nato il lavoro con Kinkaleri e quale ruolo gioca la fotografia in questa performance?
JB: “La nostra collaborazione è nata dall’amicizia e stima reciproca. Ad un certo punto del mio percorso ho avuto l’esigenza di salire sul palco con la fotografia, la prima esperienza performativa è stata alla Galleria Cardelli e Fontana di Sarzana, grazie al lavoro con Toni Garbini e Gianluca Petriccione. Un anno dopo ho chiesto alla compagnia Kinkaleri di fare qualcosa assieme e abbiamo fatto No Title Yet, dove scattavo la reazione della gente al movimento dei performer, che non sono mai stati fotografati, proiettando le fotografie direttamente su due schermi che delimitavano la scena. Invece in Once More siamo in scena in due, creando una sorta di concerto live, dove la danza e la fotografia sono al centro dello show. Un tributo alla cultura underground che ormai sta sparendo! Mescoliamo Robert Capa, Merce Cunningham, Sonic Youth. In questa performance, come in tutte quelle precedenti, la fotografia è una sorta di gobbo che mi aiuta a creare una scenografia ed una drammaturgia. (La performance Once More è stata ripresentata il 16-17 ottobre 2020 al Centro Pecci, Prato. FC)”.

TDL: Cosa avresti fatto se non il fotografo?
JB: “Meccanico… della Ferrari”.

FC: Molto spesso sei invitato a tenere seminari e workshop nelle università e accademie di belle arti italiane. Cosa consigli ai giovani studenti che ti trovi davanti in quelle occasioni?
JB: “Comprarsi dei libri d’arte e rubare!”.

La vicenda artistica di Jacopo Benassi dimostra che carisma e determinazione sono alla base di una lenta, ma innarrestabile, ascesa. Il suo talento è stato coltivato sui libri, sull’aver guardato altri e sull’aver condiviso esperienze. Quando sono arrivati gli incontri importanti, Benassi era pronto, era uno di loro e in quanto tale, è stato riconosciuto. La stabilità economica forse non gli appartiene, serve uno studio, un posto dove dormire e condividere cene con il fidanzato e gli amici, basta un treno per portarti dove vuoi andare (la macchina anche, ma la deve guidare qualcun altro, perché Jacopo non ha la patente!!!). Forse rimane tutto scritto sul suo corpo, sulla sua pelle, nei suoi capelli, nonostante tutte le foto, i segni della vita rimangono lì. Non essendosi risparmiato in tutti questi anni, può guardare al presente e al futuro con distacco e sgomento insieme. Sergio Fregoso ci manca da ormai quasi vent’anni. Forse dovremmo aspettarne altri dieci anni prima che Benassi possa essere riconosciuto quale punto di riferimento culturale in città. Aspetteremo. L’attesa non è mai inattività e vuoto.

FRANCESCA CATTOI