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Le migliori intenzioni

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Light my fire. Il suono dell’Hammond di Leonardo Corradi

di Francesca Cattoi

Leonardo Corradi al Little Big Beat Studios, Lichtenstein

Il nome di Leonardo Corradi (Sarzana, 1992) me lo ha fatto almeno due anni fa Matteo Fiorino. Al momento avevo ancora in mente persone che volevo contattare e solo un po’ alla volta ho incontrato le persone che Matteo e altri, mi hanno di volta in volta indicato. Leonardo è un professionista, un musicista, il cui strumento musicale, l’hammond, ha una storia particolare, nasce negli anni trenta del Novecento ed è strettamente legato al gospel e al blues. La situazione esige un intermediario, per cui anche in questo caso chiedo a Diego Piscitelli, che conosce bene Leonardo e che, in quanto contrabbassista, musicista capace a sua volta, può aiutarmi a condurre questa conversazione. Ci incontriamo al bar Tonelli a fine luglio 2020, una mattina tranquilla d’estate. Piazza Verdi, quella degli archi di Daniel Buren che ci fa da sfondo.

Francesca Cattoi: Ciao Leonardo, la solita domanda di rito: quali studi hai fatto? Non intendo solo le scuole canoniche, ma anche quali sono stati i tuoi studi musicali.
Leonardo Corradi: “L’ultima scuola che ho frequentato è l’Istituto superiore per geometri, che ho lasciato all’età di 18 anni appena presa la patente B per inseguire la musica. Musicalmente parlando non ho una formazione di tipo canonico, ho studiato privatamente batteria per circa dieci anni, fino all’età di 14 anni, contestualmente prendevo lezioni di pianoforte classico col maestro Claudio Cozzani. Quando ho scoperto l’Hammond, ho frequentato, sempre privatamente, Oliviero Lacagnina docente in diverse accademie musicali ed organista del gruppo rock/prog anni 70 “Latte e Miele”. Poi ho iniziato a frequentare seminari di grandi organisti come Joey DeFrancesco e Tony Monaco, che seguivo in Italia all’interno di svariati festival”.

Diego Piscitelli: Come sei arrivato all’hammond? Ci spieghi, brevemente, che strumento è? Quali sono le sue peculiarità e ambiti musicali di utilizzo?
LC: “Ho scoperto l’Hammond per caso. Era il 2004 e si stava svolgendo il consueto Festival del Jazz della Spezia. Io non c’ero mai stato prima e mio padre decise di portarmi a vedere il concerto di Jimmy Smith, uno fra i piu grandi e famosi organisti di tutti i tempi. Per me è stata un’esperienza folgorante, come un’illuminazione. Quando ti accorgi di aver trovato la tua identità. Da quel momento mi sono appassionato sempre di più a questo strumento molto particolare. Dopo meno di un anno sono riuscito ad avere in casa il mio primo Hammond modello M100, acquistato da un famoso commerciante di strumenti musicali della zona che fortuitamente lo aveva in cantina. Glielo aveva lasciato una signora tedesca che era dovuta rientrare in Germania e anche se era un modello da casa limitato, per me andava benissimo: aveva il caratteristico suono Hammond. Avendo lo strumento a disposizione ed essendo io di natura curioso e portato al fai da te e all’elettronica, non ho potuto fare a meno di iniziare a smontarlo, quasi completamente a intervalli di tempo, rimontando ogni volta tutto con cura, ma spingendomi sempre più in la per l’intenzione di capire bene il funzionamento, in apparenza così semplice ma in realtà complesso. L’Hammond fu inventato nel 1934 da Laurence Hammond. Il cuore dello strumento è il generatore di toni, una struttura metallica rettangolare di grandi dimensioni contenente 96 ruote foniche dentate che girano in sincrono davanti a relativi pick up che ne rilevano la variazione magnetica creando una forma d’onda, un suono, l’unione contemporanea di tutte le ruote foniche che creano le diverse armoniche necessarie per il suono finale. Inizialmente venne ideato per sostituire gli organi a canne delle chiese, ma in pochi anni divenne uno strumento di uso comune in quasi tutti i generi musicali e continua ad esserlo”.

DP: Quando hai iniziato a suonare da bambino, hai studiato sia il piano che la batteria. Quanto e come ha influito sul passare poi all’organo?
LC: “Lo studio della batteria e del piano ha influito moltissimo sul passaggio successivo all’organo, poiché quest’ultimo è si uno strumento melodico come il pianoforte, ma è anche percussivo, o meglio l’intenzione che si mette nel suonarlo è a metà fra le mentalità di un pianista, un bassista ed un batterista insieme. Per spiegare meglio, la mano sinistra dell’organista è impegnata nel suonare la linea di basso, mentre il piede sinistro batte i quarti sulle note della pedaliera, seguendo l’armonia della mano sinistra. La mano destra si occupa della parte pianistica, o meglio di fare gli accordi e le melodie, ed il piede destro infine dosa la dinamica del suono complessivo tramite il pedale del volume in modo da dare un senso a ciò che si suona. Quindi la necessità di suonare utilizzando gambe e braccia in maniera indipendente, è stata per me agevolata dal fatto che avevo studiato sin da piccolo la batteria”.

DP: Quale è stato il primo genere che hai esplorato e come sei arrivato a suonare Jazz?
LC: “Inizialmente ho collezionato quanti più dischi possibili di Jimmy Smith e di altri organisti simili, che suonavano un genere musicale jazz/blues, diciamo molto più blues che jazz. Solo col passare degli anni, e dopo avere iniziato a suonare in piccoli eventi ed in seguito frequentare Workshops nei festival dov’erano presenti alcuni fra i più forti musicisti di jazz viventi, mi sono avvicinato più aquesto genere musicale e mi sono allontanato un po’ da quello che era prettamente blues o organistico inteso in quel senso. A questo punto, ho ricominciato a comprare dischi di chitarristi, sassofonisti, trombettisti, pianisti, che hanno apportato un grande cambiamento nel mio modo di pensare la musica e continuano ancora a farlo”.

DP: A parte Jimmy Smith, che ti ha portato a diventare un hammondista, quali altri musicisti sono e sono stati per te d’ispirazione?
LC: “Ho passato, penso come la maggior parte di noi musicisti, varie fasi di ascolto di diversi musicisti e diversi generi musicali. Comunque, i personaggi più significativi per il mio sviluppo musicale, oltre a Jimmy Smith, sono Joey DeFrancesco, Larry Goldings, Herbie Hancock e Robert Glasper”.

FC: Hai lasciato La Spezia a 18 anni. Dove hai vissuto? Quali luoghi hai visitato grazie al tuo lavoro, alle tournée?
LC: “Inizialmente mi sono trasferito a Ronciglione in provincia di Viterbo a pochi km dalla capitale, luogo strategico che mi permetteva di pagare un prezzo di affitto basso e poter frequentare i club ed i musicisti di Roma. In seguito, mi sono mosso direttamente in città per questioni di comodità: da quando iniziai nel 2012 a fare concerti all’estero, la mia priorità era diventata la vicinanza agli aeroporti. Sono 8 anni che ho all’attivo progetti musicali con Fred Wesley, trombonista e direttore d’orchestra di James Brown Band, Ulf Wakenius, chitarrista per 10 anni del gruppo di Oscar Peterson. Con Wesley e Wakenius abbiamo girato tantissimi posti nel mondo, dall’Europa al Brasile, dalla Cina alla Korea, dal Giappone agli Stati Uniti, dall’Africa ai Caraibi”.

FC: Durante la quarantena dovuta all’emergenza Covid-19, sei tornato alla Spezia. Come hai vissuto questo periodo?
LC: “Poco prima dell’emergenza sanitaria sono partito per una turneè con Fred che sarebbe dovuta durare fino a metà aprile, ma sfortunatamente sono dovuto rientrare dopo una sola settimana dall’inizio del tour, prendendo uno degli ultimi voli disponibili da Monaco, Germania per l’Italia. Il lockdown l’ho trascorso alla Spezia con la mia famiglia. È stata dura e continua ad esserlo, la situazione lavorativa per i musicisti è collassata, forse si intravede uno spiraglio di luce dal mese di agosto, speriamo di poter tornare a suonare come e più di prima”.

FC: Cosa ti lega alla Spezia?
LC: “Sicuramente la famiglia, ma anche la tranquillità di una cittadina a misura d’uomo, senza troppo caos, dove si vive piuttosto bene. Ovviamente, non potrei vivere di musica nella mia città, quindi ho il costante bisogno di spostarmi e stare via anche per lunghi periodi, ma sempre col desiderio di rientrare prima o poi alla base”.

FC: Come ho scritto sopra, Matteo Fiorino mi aveva parlato di te, tra i talentuosi musicisti spezzini. Se scorri la rubrica, vedrai che ho intervistato, oltre a Fiorino, anche Elia Venturini e Alessandro Benedetto di Vis Harmoniae, Ignazio Alaya, Germano Polano, Othavio, gli Asino e anche Anna, tutti musicisti spezzini attivi in città e non solo. Che pensi della scena musicale spezzina?
LC: “Negli ultimi 10 anni ho vissuto a Roma, non conosco benissimo l’evoluzione della scena musicale spezzina. Vedo con piacere anche dalla tua rubrica, che ci suono nuovi artisti emergenti. Non so dire se le cose siano cambiate, ma fino a poco tempo fa le opportunità offerte nel campo della musica erano limitate e i musicisti che cercavano stimoli e che volevano suonare avevano la necessità di andare fuori”.

DP: Sulla base della tua esperienza, cosa consiglieresti ai giovani musicisti spezzini di Jazz, per crescere musicalmente e professionalmente?
LC: “Ai giovani musicisti di Jazz, il mio consiglio è quello di frequentare quante più masterclass con musicisti forti possibili. Ormai è abbastanza semplice, in Italia se ne organizzano molte nel corso dell’anno, basta solo scovarle ed iscriversi. Poi direi che sia fondamentale andare a vedere i concerti e ascoltare tanti dischi, cercando di sviluppare al massimo l’orecchio perché il jazz è una musica originariamente molto istintiva e se si pensa solo alla partitura non si va lontano. Anzi il consiglio più importante è proprio concentrarsi, per comprendere l’intenzione che avevano i musicisti mentre suonavano quello che stiamo ascoltando. Questa è la lezione più grande che possiamo imparare da chi ci ha preceduto”.

Arrivano Giulia e Ada, la famiglia di Diego. Abbiamo passato più di due ore insieme ed è ora di lasciarsi. Ma ci diamo appuntamento ad una settimana dopo, quando Leonardo salirà sul palco del SpéJazz, allestito per l’occasione in Piazza Europa, in trio insieme a classica Flavio Boltro e Matteo Cidale, in un concerto omaggio al jazzista scomparso Aldo Bassi. Così, il 2 agosto 2020, ho avuto la possibilità di sentire il suono dell’Hammond, dal vivo, così come lo suona Leonardo, in una serata estiva in cui sopra di lui e dei suoi compagni musicisti, stava la luna piena. Una visione che pur richiamando la normalità di una serata estiva alla Spezia, aveva la particolarità di mettermi in collegamento con una storia che non conoscevo. Leonardo, pur così giovane, nel giro di pochi anni si trova da spettatore a musicista sul palco. Chissà che tra il pubblico non ci sia stato, qualcuno che come lui allora, non abbia avuto un’illuminazione e incominci a cercare un Hammond o anche solo dischi e musica in cui questo strumento è protagonista.

FRANCESCA CATTOI