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Le migliori intenzioni

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Nümei. Il rap spezzino di Othavio

di Francesca Cattoi

Othavio, nümei - 2019

Ad Ada e Leo

“Sto chi i n’è mae da pessi, tanto n’te ghe riessi”: è il ritornello della canzone che chiude l’ultimo progetto musicale di Othavio, al secolo Danilo Manganelli (La Spezia, 1977). Tutte le canzoni di nümei sono in dialetto spezzino e parlano in modo diretto a chi è nato e cresciuto qui, alla Spezia e nella sua provincia. Il dialetto di una zona, di un luogo, infatti, raccoglie i suoni, le espressioni, i vocaboli, che rimangono nel bagaglio culturale di chi lo ascolta e lo assimila sin da piccolo. Chi viene da fuori può far capire, imparandolo, che è stato ben accolto e che c’è una certa prossimità tra lui e coloro che abitano nei luoghi visitati. Il dialetto è qualcosa che ci si porta sempre dentro e che magari viene a galla in maniera e momenti inaspettati e difficilmente possiamo dimenticarlo del tutto. La frase che ho scelto, tra le tante scritte e cantate da Othavio, mi sembra, però, paradigmatica di un modo di pensare diffuso nel nostro territorio: il tentativo costante di sminuire quello che si vede di buono intorno, i successi degli altri, il talento che si esprime, si manifesta. Questa rubrica, anche per andare controcorrente (per restare in termini marinari), è nata con l’intenzione di agire diversamente, e dimostrare che “questo è un mare da pesci”, magari non tantissimi, ma ci sono eccome. Per cui, quando Diego Piscitelli mi ha mandato uno whatsapp per presentarmi la musica di Othavio, mi sono fidata e ho ascoltato. Diego ed io – legati da una conoscenza piuttosto recente, ma forte di reciproca stima e affetto e che mi aiuterà anche per interviste future – abbiamo incontrato Danilo a dicembre 2019 in Piazza Brin al bar Sottoiportici. Forse non potevamo trovare luogo più adatto per parlare di dialetto spezzino, visto che la piazza non è immortalata solo nelle foto di Sergio Fregoso, ma anche nei versi in dialetto del fratello, Renzo, uno dei nostri poeti dialettali più noti e prolifici. Ci siamo quindi divisi le domande e questa è l’intervista che ne è venuta fuori.

Francesca Cattoi: Ciao Danilo, durante l’incontro, abbiamo parlato di una tua partecipazione alla musica locale da molti anni. Da quanto tempo fai musica? Quali sono i gruppi o le formazioni che più hanno caratterizzato il tuo percorso?
“Musica è una parola troppo grande per quanto mi riguarda…Non sono un musicista, mi limito a fare percussione con le parole. Lo faccio dagli anni dell’adolescenza, forse dai 16/17 anni o giù di lì…quindi da più di vent’anni. Ho fatto “banda” nella – credo – terza generazione della scena hip hop della Spezia. All’inizio condividevo questa cosa con gli amici di zona, poi ci siamo allargati alla vicina scena toscana, in quel di Viareggio e dintorni, già molto agguerrita, in particolare riguardo al rap e al writing. Con loro abbiamo siglato amicizie importanti che durano ancora oggi. Ho inciso il primo lavoro assieme a due compari toscani, Emi e Gigi, con CriKeynote (deejay spezzino) ai giradischi. Era il 2004 e il gruppo si chiamava LatobesodelaFazenda. Con questo nome, cambiando formazione negli anni, abbiamo realizzato diverse cose, facendo molte esperienze. Parallelamente ai fazendieri – intorno al 2011 – iniziai a concretizzare un approccio “spoken word”, che già sperimentavo da tempo, e a lavorare con una vera e propria band strumentale, con alcuni amici con cui condividevo l’esperienza dell’RDAMayDay: il gruppo si chiamava rümo. Nel tempo, ho collezionato anche scritture più personali e intime, spesso sfruttando il dialetto spezzino, alcune finite nel mio primo lavoretto solista: nümei”.

FC: Qual è la tua formazione? Quali i momenti per te più significativi del tuo percorso?
“Negli anni dell’hip hop, sui muretti, nelle cantine e nelle ferrovie, frequentavo il liceo artistico di Carrara. Un’esperienza formativa davvero forte: c’erano alcuni professori che ti ribaltavano il punto di vista, ti “aprivano” lo scenario! Sul finire degli anni Novanta, iniziai a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Bologna, ma era più una scusa per trovarmi nell’epicentro dell’hip hop del tempo che una vera motivazione allo studio accademico. Anche la “bomba del 2001″(cit.) ha contribuito a cambiare la mia visione delle cose, in particolare riguardo agli scritti. Smisi l’approccio “muscolare” alle rime, quello dell’ostentazione dell’ego, per affrontare altre tematiche”.

Diego Piscitelli: Quali sono gli artisti, che siano musicisti o poeti, che ti hanno influenzato di più nel tuo percorso artistico-musicale?
“Riguardo all’Italia, nel periodo hip hop sono stato rapito da tutta l’ondata Sanguemisto, poi Zero Stress, Kaos, Colle Der Fomento, mentre per gli Stati Uniti, la corrente di Redman e della DefSquad su tutti…dopo ho scoperto i cantautori, Giorgio Gaber sicuramente mi ha lasciato dei segni notevoli (in diversi mi dicono che quest’influenza si sente in nümei), ma anche la sensibilità di alcuni emcees francesi mi ha molto colpito. Attualmente, conducendo una trasmissione su radiorogna.it che si chiama ritmAzione, continuo ad ascoltare un mare di musica, ma con un orecchio diverso: ci sono un sacco di artisti fortissimi, ma è l’abbondanza che un po’ mi frega, non riesco più a focalizzarmi su un nome come facevo un tempo”.

FC: Come funziona la musica che componi con i testi in spezzino? Come si sposano la lingua con la scrittura sonora?
“Tento di pensarlo, il dialetto. Altrimenti, tradotto, non funzionerebbe. Lo faccio suonare in testa descrivendo immagini, lo porto nella situazione che mi interessa. Se suona bene lo trascrivo. In generale, tutto quello che scrivo (anche in italiano), prima deve suonarmi bene, proprio a livello estetico, se così si può dire. Col dialetto il gioco è facilitato perché già di per sé suona bene, almeno secondo me. La lingua che sfrutto è una sorta di trasposizione portata ad oggi, non pretende di essere quella originale perché sono davvero distante, temporalmente e culturalmente, dalla Speza di Gamin, pseudonimo di Ubaldo Mazzini (La Spezia, 1868 – Pontremoli, 1923). Un cultore della lingua originale troverebbe molti errori e imprecisioni. Ma io mi prendo un po’ di libertà trattando il dialetto in maniera “open source”, lo farcisco con varie cose…tipo la parola maopantasso, non esiste; non avevo una parola per definire l’ansia (per nümei era essenziale) e ho combinato mao (male) con pantasso (affanno)”.

FC: Raccontaci di nümei? Come hai costruito il disco?
“nümei non aveva un nome e nacque in una forma leggermente diversa, qualche estate fa, quasi come un blocco unico. Ho partorito un groviglio di pensieri collegati a versi in rima, poi li ho sottoposti a Diego (Piscitelli) – già basso dei Latobeso – e lo abbiamo sviluppato per farlo diventare una performance live. Con Diego, già anni prima, ci eravamo inventati questo duo acustico, eSPerience, voce e contrabbasso, a cui poi si aggiunsero altri amici. nümei sapeva molto dell’originale eSPerience, solo che in aggiunta avevamo i samples. Abbiamo fatto questo live un paio di volte, al Festival della Mentina e alla Baracchetta di Lerici, poi col tempo l’ho quasi rimosso. Sono passati alcuni anni, mi torna in mente e penso di farne una demo, registrarla in due giorni e via. Ho interpellato Angelino Bassound (TypeConnection) – deejay/produttore, ma anche uomo da mixer – gli ho chiesto supporto e l’ho fatto impazzire per un po’. Ho cominciato a lavorare di fino, iniziando la pre-produzione circa due anni fa, cercando samples che suonassero alla maniera antica, decisamente fuori dal tempo di adesso, fuori tempo, come questo dialetto. Una volta fatte le strutture ritmiche, ho chiesto a Diego di registrarmi praticamente tutte le linee di basso e contrabbasso. Poi mi sono arenato. Ho ripreso nümei la scorsa primavera, ritoccando, aggiungendo, smussando qua e là e invitando altri amici a suonarci dentro. Alcune incisioni le abbiamo fatte dal Dr.Razzyx a Luni, altre da Angelino a Massa. Inoltre, più immaginavo il protagonista della storia, più mi venivano in mente i disegni di Alice Parodi, “il Cervello di Alice”, illustratrice/grafica che era uscita con un libretto per bambini, Luna e la bambina, che avevo regalato tempo prima ad amici, per il figlioletto. L’ho contattata tramite conoscenze in comune e l’ho trovata entusiasta di lavorare al progetto. Lei ha dato una veste grafica a nümei, le ho detto che avrei voluto farne una scatoletta contenente una chiave USB con gli audio e un librettino a quadretti che riportasse i testi in italiano. Ha sentito il lavoro non mixato, si è lasciata ispirare, dopo è arrivata con i disegni, abbiamo chiuso il lavoro e fatto uscire l’audioggetto in questione. Potete trovarlo in copia fisica alla Spezia al Distrò, all’Origami e alle Librerie “Contrappunto” e “Liberi Tutti”, a Sarzana al Lavoratorio Artistico in Via dei Giardini. O nel caso ascoltarlo su: https://othavio.bandcamp.com

https://www.youtube.com/playlist?list=PLzVqpyJGU-zKRQRVkgB5dNlFxG1Hy1RT2”.

FC: La caratteristica principale del progetto nümei è che tu scrivi i testi e rappi in spezzino. Come e quando ti sei avvicinato al dialetto cittadino? Quali i tuoi maestri o guide?
“Sono cresciuto in un paese della bassa Val di Vara dove molti adulti parlavano ancora il dialetto: i grandi lavoravano alla Spezia e tornavano nel paese alla sera, portando le parole e i modi di dire direttamente dalla città. Il dialetto suonava per aria. In casa mio nonno e mio padre spesso lo parlavano tra loro. Mi sono rimasti degli echi. Mi affascinava il suono e in seguito l’ho approfondito, frugando tra gli antichi Poeti del Golfo. Poi, in varie situazioni live, ho incrociato alcuni di quelli che ancora lavorano intorno alla lengoamae, persone come Renzo Fregoso e Pier Giorgio Cavallini”.

FC: Nel disco ci sono collaborazioni con diversi altri musicisti come Diego Piscitelli e Germano Polano (già intervistato in questa rubrica). Come coinvolgi i vari musicisti della scena locale?
“Come scrivevo, Diego è stato fondamentale nello sviluppo strumentale di nümei già in fase embrionale. Diego lo conosco da un sacco, e poi sia con lui che con Gerry (Germano Polano/Brighela), MarSelo e altri abbiamo vissuto assieme l’esperienza dell’RDAMayDay per un periodo. Condividere uno spazio sociale ha fatto accantonare molti tribalismi, il genere è diventato meno importante in favore della volontà di comunicare qualcosa, che sentivamo in tanti. Questo per dire che ci frequentiamo da molto tempo. Al di là di questo, praticamente tutti quelli che hanno dato un contributo a nümei sono persone con cui ho un’ottima confidenza, quindi ho chiesto e hanno accettato senza problemi”.

DP: Considerando il tuo percorso artistico, per quale motivo hai virato verso un prodotto così diverso dal passato e cosa ti ha spinto a produrlo da solo?
“Non è stata una decisione troppo ponderata, né nella forma né nella struttura. É tutto un discorso che si sviluppa in mezz’ora, ogni brano è praticamente la conseguenza dell’altro. Mi è venuto naturale alternare il parlato al rap, mi sembrava funzionale, tutto qui. Quando venne fuori l’idea di nümei vivevo un periodo di maopantasso: quei momenti in cui percepisci che devi fornire resoconti precisi, senti di non riuscire e ti colpevolizzi per mille cose. La storia del bambino è parecchio autobiografica, ma volutamente deformata e riporta sensazioni che ho vissuto anche in età adulta, ovviamente in altri ambiti. In diversi mi hanno confessato che si sono rivisti, penso sia una cosa comune a tanti. Quando si sono presentati nuovi resoconti e circostanze simili, mi è tornata in mente quell’idea, rileggendo i testi ho trovato tutto tremendamente attuale: non mi sembrava male pubblicarlo, me lo dovevo proprio, era una cosa personale e volendo essere onesto, non potevo che firmarlo da solo”.

DP: Visto che all’interno di nümei perlopiù descrivi situazioni con occhi da bambino, che rapporto hai con i bimbi?
“Da alcuni mesi aiuto una coppia di amici occupandomi tutti i giorni di un bimbo di cinque anni, Leo, per alcune ore. Mi si è aperto un mondo che non conoscevo per niente (nümei era già ultimato), perché sono un vecchio fante over40 non padre. È spettacolare dover riprocessare tutta una serie di conoscenze per doverle raccontare semplificate, ci vuole tempo e applicazione, ma si può imparare molto. Quando regali la meraviglia a un bimbo è una soddisfazione impagabile. Poi trovo un sacco di cose in comune che personalmente non ho perso con la crescita, come respingere il cibo canonico, ma divorare al volo i dolci peggiori o stare incantati davanti alle edicole…”.

FC: Quali sono i tuoi progetti futuri?
“Ho appena finito di dare un aiuto con l’impaginazione delle grafiche al mio socio BudLee, che uscirà presto con un sette pollici, GEODE, un 45giri in vinile, che contiene alcuni brani prodotti da lui. Inoltre, insieme abbiamo un gruppo che si chiama SomaRionda (somarionda.bandcamp.com) e usciremo fra qualche mese con un disco di musiche sue e parole mie (per la maggior parte in italiano), sempre in vinile, a 33giri però, con delle foto stupende di Jacopo Grassi”.

La presenza di Othavio in questa rubrica, anche se a rigore non rientra nei limiti di età, è dovuta, come già scrivevo, alla fiducia in Diego, talentuoso musicista che ha una fitta rete di collaborazioni musicali in città. Dopo aver ascoltato i 14 file mp3, mi sembrava che fosse un’occasione troppo ghiotta: delle canzoni in dialetto! Il progetto musicale andava presentato ai lettori di questa rubrica. Inoltre, durante la conversazione con Danilo, la sua passione e competenza, anche con umiltà, per il dialetto e la sua storia, mi hanno fatto comprendere quanto poco sapessi delle figure storiche che lui nominava e che si erano cimentate con lo spezzino. Così ho dedicato un po’ di tempo alla lettura delle poesie di Ubaldo Mazzini e del suo Saggio di Folclore Spezzino del 1919. L’idea di Othavio di fondere il suono della lengoamae (vocabolo, mae, che in spezzino significa sia madre sia mare) con la musica contemporanea è originale e coraggiosa, le canzoni sono divertenti e godibili ed è stata una bella coincidenza averle ascoltate. Ubaldo Mazzini scriveva in un suo sonetto, A preva, 1897, di essersi cimentato in poesia in spezzino, per dimostrare che questo dialetto poteva essere degno di essere usato per nobili scopi. Avrebbe sicuramente apprezzato l’altrettanto valoroso esperimento di Othavio nell’usare “o spezin” per scrivere delle canzoni. Come lui, anche Danilo può dire: ‘nte a me ignoansa a po’ per po’ / Ho fato tüto quelo c’ho possü / Per fae vede s’ho torto, s’a ne l’ho.

FRANCESCA CATTOI