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Una storia spezzina

Una storia spezzina

Il municipio era color cenere già nell’Ottocento

di Alberto Scaramuccia

Import 2020

In casa raccontavano sempre che i nonni nella primavera del 1914, per andarsi a sposare, si erano fatti a piedi tutto viale Savoia (oggi è Amendola ma per abitudine lo chiamavano ancora così) seguiti da un codazzo festante di amici e parenti che li accompagnò dalle loro case di Rebocco fino in Comune. Lì, infatti, si celebravano le nozze prima che i Patti Lateranensi dessero valore legale al matrimonio religioso. Io, sentendo per l’ennesima volta l’epopea casalinga dalla quale sono nato, pensavo quanto era lunga quella camminata giù fino al mare dove stava la piazza Italia che ospitava il Comune quando non si chiamava ancora Europa.
E già perché al bambino omettevano di dire che il Municipio a quel tempo stava in piazza Beverini. Davano per scontato che lo sapessi dimenticando che le cose vanno prima insegnate per pretendere poi che le si sappiano. Se poi qualcuno insiste pervicacemente nell’errore, beh, quella sì che è colpa grave assai.
Nella piazza che agli inizi si chiamava di corte, di palazzi comunali ne avevano eretti ben quattro in altrettante versioni che rispondevano ai bisogni di una città in continua crescita: dalla prima loggia ai rifacimenti del 1420 e di inizio Seicento fino al modello di inizio Novecento che qualche bombetta nel ’43 condannò a morte prematura. Prima che se ne andasse, comunque, girava per la città una leggenda metropolitana (oggi quell’arcaismo si direbbe fake news) che diceva essere chiamato dagli antenati ad esso coevi “cenere”: e per la tinta e per l’avversione al cemento, l’astruso materiale moderno con cui lo si era costrutto.
Nella mia smisurata ingenuità che ancora sconfina in un’illimitata fiducia nel prossimo, credevo di avere da tempo sconfitto quella diceria avendo provato che anche il palazzo che venne demolito per fare posto al nuovo godeva del medesimo appellativo.
L’ho detto e ridetto tante volte e ora lo ripeto.
In una pubblicazione dello scorso anno appena letta, taccio per bontà l’identità del misfatto, si afferma che il nuovo edificio del primo Novecento portava quel grazioso nickname che ho già detto e dimostrato essere preesistente al più moderno edificio.
Per non ripetere sempre le solite cose, oltre a ribadire che “cenere” è di fine Ottocento, riferisco anche di un’affermazione che compare su “Il Muratore” del 21 febbraio 1893. La testata, non amando la Giunta in carica, scrive che è tanta la confusione nel “palazzo color cenere, come lo chiama l’amico Tenerani”. Così scopriamo anche chi (forse) ideò l’appellativo.
Inserisco l’immagine del testo come prova e speremo ben ch’i la finisso con ‘sta mossa.

ALBERTO SCARAMUCCIA